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Il Cervino visto da Cervinia
Gargantua ( Honoré Daumier - 1832)
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Gargantua e la nascita del Cervino
Monte Cervino (AO)
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Gargantua era un gigante buono che era arrivato a Valtournenche dopo aver viaggiato in tutto il mondo. Convinto di aver trovato il paradiso, per la bellezza del paesaggio e la tranquillità che regnava in quella vallata, decise di rimanervi.
Il gigante era stato accolto con affetto dagli abitanti e li ricambiava aiutandoli a svolgere alcuni lavori che per loro erano faticosissimi, mentre a lui non richiedevano alcuno sforzo. Con una sola mano egli era in grado di deviare il corso di un torrente o di raccogliere in un baleno un intero raccolto di fieno. La gente, sapendo che egli amava la calma, cercava di non disturbarlo troppo, ma talvolta i bambini chiedevano di poter salire sulle sue mani, mentre altri volevano che narrasse le sue innumerevoli avventure.
Lui con gioia, raccontava di tempeste incredibili e terre lontane. Talvolta, mentre ricordava i suoi viaggi, riaffiorava in lui il desiderio di conoscere cose nuove e vedere altri luoghi. Un giorno, in preda ad una crescente curiosità decise di scoprire cosa c'era al di là delle grandi montagne che circondavano la valle. All'alba partì per arrivare in cima alle vette. Gargantua faceva attenzione a non rovinare con i suoi passi i campi dei suoi amici e ben presto arrivò ai piedi dei ghiacciai. Quando cercò di salire sul ghiacciaio, a causa del suo peso, dopo qualche passo fece cadere la roccia e tutta la montagna crollò. Solo una piramide di ghiaccio riuscì a salvarsi perché si trovava tra le gambe divaricate di Gargantua. Quella montagna che svettava solitaria in cielo regalava uno scenario mozzafiato, più bello di quello precedente. Quel giorno il gigante aveva fatto nascere il Cervino.
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L'origine del lago di Caldaro
Caldaro sulla strada del vino (BZ)
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Il Signore lascia talvolta il suo splendente trono di stelle per scendere sulla terra e, rivestito di poveri panni, s'avvia per le numerose strade del mondo. Il suo viso è dolce ed umile e i suoi occhi riflettono un'infinita bontà. Passa per le nostre rumorose città, per i nostri tranquilli viaggi. A volte sosta per via, per rivolgere la parola a qualche passante che incontra sul suo cammino. Troppo spesso questi non ode, o finge di non udire la voce che lo chiama: ha fretta, troppa fretta e si allontana indifferente. Talvolta il celeste Viandante sosta davanti ad una casa: bussa ed attende pazientemente che qualcuno l'inviti ad entrare, ma troppo spesso quella porta rimane chiusa, ostinatamente chiusa. Col viso triste, accorato egli riprende, allora, il suo cammino alla ricerca di altri uomini a cui rivolgere la sua parola di amicizia, in cerca di altre case in cui portare il dono della sua bontà. Così, un giorno, il Signore giunse alla terra di Caldaro. La terra era bella, fiorente. Stanco, affaticato per il lungo cammino, egli si diresse verso il maso Klughammer. La casa era solida, massiccia, di bella fattura e testimoniava chiaramente del benessere della famiglia che vi abitava. Infatti, il padrone del maso, il «Bauer», era assai ricco; possedeva campi, vigneti, prati e pascoli al piano e al monte; i suoi granai erano ricolmi di grano e le sue stalle di armenti. Malgrado le sue grandi ricchezze, quel contadino era il più povero tra i poveri, perché era avaro. Mai un soldo egli aveva tolto dalle sue casse per donarlo ad un mendico, mai un pane egli aveva levato dalla sua dispensa, per donarlo ad un affamato. Alla porta del maso Klughammer venne, dunque, a bussare il Signore. Gli aprì il padrone stesso. Si trovarono di fronte, l'uomo dal cuore di pietra e il Viandante dagli occhi luminosi, pieni di bontà. «Che vuoi?» chiese con voce aspra il contadino. «Un pezzo di pane ed un sorso d'acqua; ho fame e la gola mi brucia per l'arsura» rispose il forestiero, con voce supplichevole. E già la contadina impietosita, stava per porgergli quanto chiedeva, quando l'uomo, con voce dura e cattiva, proruppe: «Non c'è pane in casa mia, per i vagabondi, e di acqua Dio ne manda tanto poca!… Vattene». Il Viandante chinò il capo in silenzio e si allontanò dirigendosi verso i boschi della Mendola. Qui egli sostò, in cerca di un rifugio. I maestosi abeti inchinarono le cime al passaggio del loro Creatore. Solo, inginocchiato sulla nuda terra, pregò e diede sfogo al suo cuore traboccante di amarezza. Pianse per la cattiveria, per la durezza di quell'uomo e di tutti gli uomini che, chiusi nel loro freddo egoismo, non avevano voluto accogliere il suo invito alla bontà, alla generosità, all'amore. Lacrime cocenti inondavano il volto santo. Caddero, come rugiada, tra i sassi, fra l'erbe, inzupparono il terreno; a poco a poco si raccolsero insieme e formarono una piccola sorgente. Questa andò rapidamente ingrossando e diede origine ad un torrente. Scorrevano, scrosciando, fra massi e dirupi le sue acque; all'improvviso si gonfiarono, ribollendo tutte di schiuma, e, superate le sponde, precipitarono a valle. Con furia paurosa, la fiumara tutto travolse ciò che incontrò sul suo cammino: campi, vigneti, prati, case… E dove prima regnava la ricchezza, il benessere, lasciò desolazione e rovina. Il maso Klughammer fu risparmiato in tanta devastazione (ed esiste tutt'oggi), ma i prati, i vigneti, i campi rigogliosi furono devastati e sommersi dalle acque. Così il contadino superbo ed avaro divenne povero, povero fra tanti altri poveri. Acqua, si, ce n'era molta, ora: una limpida discesa verd'azzurra ricopriva quelle campagne un tempo rigogliose di fiori, di messi, di frutti. Nacque così, secondo la leggenda, il lago di Caldaro.
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Le Piramidi del Renon
Renon (BZ)
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A Longomoso viveva, una volta, un ricco contadino, che aveva un unico figlio di nome Franz. Il contadino era uomo dabbene, onesto e laborioso. Il figlio era tutto il contrario; scioperato, dissipatore, aveva in dispregio la religione e le cose sante. Insensibile ed arido di cuore, a nulla servivano gli accorati ammonimenti del padre, né lo commovevano le silenziose lacrime materne. Contadino, figlio di contadini, non sentiva l'amore alla terra, quell'amore, quell'attaccamento, che converte in gioia il pur duro e faticoso lavoro dei campi. Di rado, infatti, lo si vedeva con la zappa, con la vanga, con la falce in mano; a questi strumenti, Franz preferiva i birilli, il mazzo delle carte da giuoco, il bicchiere di vino all'osteria in compagnia di amici scioperati e perditempo pari suoi. Ma venne un giorno che tutti questi spassi gli vennero in uggia; bisognava cercare qualche altro modo di divertirsi, qualcosa di nuovo e, dopo averci pensato, decise di andare in giro per il mondo. Avrebbe viaggiato per terra e per mare, avrebbe visto terre nuove, città splendide dove avrebbe potuto, finalmente, divertirsi a suo agio. E il denaro? Egli non ne aveva, perché non aveva mai pensato a guadagnarselo e lo chiese al vecchio padre, che dovette dar fondo a tutti i suoi risparmi per accontentarlo. Franz partì Partì incurante di tutto e di tutti, con il sacco nuovo in spalla, il cappello spavaldamente calcato sulla nuca; partì senza voltarsi indietro, senza mandare un ultimo cenno di saluto alla madre, che lo seguiva col pianto negli occhi dalla soglia di casa. Franz viaggiò, andò lontano, ma neppure nei viaggi trovò quello che cercava, ed insoddisfatto fece ritorno alla casa paterna, dove i genitori lo accolsero a braccia aperte. Dispiaceri, dolori, angustie erano scomparsi; il figlio, il loro amato figlio, era tornato nella grande casa, che sembrava così vuota senza di lui. Ma Franz era quello di prima e come prima tornò a dividere i suoi giorni fra i birilli, le carte da gioco, gli amici e l'osteria. Fu appunto mentre stava seduto ad un tavolo dell'osteria, che un giorno udì parlare delle streghe del Pirchboden. Qualcuno raccontò che a mezzanotte in punto, nelle notti di plenilunio, le megere si radunavano nella vasta radura, dove ballavano e facevano ogni sorta di stregonerie. Nessuno s'era mai spinto fin lassù? Qualcuno si, qualche pazzo temerario che, però, non aveva più fatto ritorno. Eh, con le streghe non c'era da scherzare! Esse non ammettevano testimoni ai loro convegni. Il discorso era caduto lì, ma l'idea di un'audace avventura piacque a Franz. Egli se ne rideva delle streghe e dei loro sortilegi, che diamine! Così una notte di plenilunio s'avviò verso il Pirchboden. Bianca, sotto la luna, si stendeva la radura; qua e là qualche solitaria betulla dalla chioma d'argento stormiva lievemente nel silenzio incantato della notte. Franz si acquattò prudentemente dietro un masso che stava al margine della spianata ed attese. Doveva essere quasi mezzanotte. D'un tratto l'aria fu percorsa da sibili, da fischi; volando nell'aria, a cavallo di scope e bastoni, giungevano le streghe da ogni parte dell'orizzonte. Franz cominciò a tremare come una foglia di betulla. Che sarebbe successo ora? Le streghe iniziarono una furiosa sarabanda accompagnata da strida e suoni laceranti. Sembrava che l'orribile spettacolo non dovesse avere più fine. All'improvviso le streghe avvertirono la presenza dell'estraneo; tutte insieme urlando e schiamazzando mossero verso il nascondiglio dove Franz stava raggomitolato più morto che vivo. Lo trassero fuori, trionfanti, le megere e lo invitarono a ballare con loro. Fu giocoforza seguirle e il povero Franz fu trascinato senza posa in quella ridda frenetica. Quanto durò l'orribile tregenda? Improvvisamente la luna scomparve e il buio più nero sommerse la prateria. Più alte, più stridule si levarono allora le grida delle streghe, poi cessarono d'incanto e un silenzio cupo e sinistro gravò su tutte le cose. Nell'aria corse un funesto presagio; lo avvertirono per primi gli animali della foresta che già dormivano al sicuro entro i loro nidi, le loro tane. Che stava per accadere nella solitaria radura? Il vecchio picchio verde si ritirò prudentemente nel cavo dell'albero dove alloggiava indisturbato da molte stagioni, lo scoiattolo si rannicchiò tutto nel suo pensile nido, fra i rami più alti dell'abete e mamma volpe ricacciò in fondo alla tana i volpacchiotti tremanti e spauriti. Preannunciato da saettanti bagliori che sembravano incendiare il cielo, si scatenò l'uragano. Piovve, tuonò, lampeggiò tutta la notte. La furia infernale della bufera squassò e sconvolse la radura. Finalmente spuntò l'alba e tornò il sereno. Che avvenne a Franz e delle streghe nella terribile notte? Sorpresi dalla bufera, né Franz né le streghe riuscirono a mettersi in salvo; rimasero là dove si trovavano, ritti ed immobili, trasformati in grige piramidi di terra e di pietra. Così vuole la leggenda. Sorgono a decine le strane piramidi lungo i fianchi scoscesi del monte, là verso la valle, dove un giorno si stendeva il verde Pirchboden. Portano tutte sulla sommità un masso tondeggiante, che di lontano le fa sembrare gigantesche figure umane. E così, infatti, appaiono tutt'oggi al viandante che, in cerca di silenzio e di poesia, percorre il sentiero che da Longomoso porta al ridente villaggio di Montedimezzo
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Chi sono i nanetti del vino
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Chi sono i nanetti del vino
Val d'Adige (BZ)
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Un giorno, così narrano gli antichi libri, giunsero nella nostra terra, con gran seguito di servi, i figli di Noè. Si accamparono ai margini della Val d'Adige che era, allora, deserta e selvaggia, sciolsero i cavalli e scaricarono dai pesanti carri numerosi otri di pelle caprina pieni di vino, che avevano recato con sé dalla loro patria lontana. Quella terra incolta, ma tutta aperta ai caldi venti del sud, piacque ai figli di Noè. Quello era il luogo ch'essi cercavano, qui certamente avrebbe prosperato la prodigiosa pianta dal frutto dolcissimo: la vite. Un giorno, dopo aver vagato lungo al piano, i forestieri raggiunsero le prime alture dove abitavano i nani, certi omini piccini e barbuti, che vivevano coltivando poche spanne di terra strappate alla sterpaglia ed allevando qualche po’ di bestiame: bovini grandi come pecore e pecore non più grandi degli agnellini appena nati. Sorpresi, meravigliati ed anche un po’ intimoriti, i nanetti mossero incontro agli stranieri con mille inchini e profondi salamelecchi. «Chi potevano essere mai, quegli uomini alti e forti?» si chiedevano fra loro i nani «che cosa volevano da loro? E che portavano in quegli strani e rigonfi recipienti di pelle?». Queste ed altre mille domande si facevano i nani, sempre più incuriositi, guardando incantati quei bruni giganti venuti da chissà dove, mandati chissà da chi. Risero divertiti gli uomini venuti di lontano all'ingenua e fanciullesca curiosità dei nani e, dopo averli tranquillizzati, aprirono un otre. Dalla stretta bocca sgorgò spumeggiando e gorgogliando un liquore rosso come il rubino dal profumo delicatamente frizzante. Allegri, gli uomini riempirono alla fragrante onda i rozzi bicchieri di legno e bevvero. Bevvero anche i nanetti e, più bevevano, più si sentivano diventare gai, spensierati, felici. Si fecero arditi, allora, gli uomini e chiesero agli stranieri donde venisse quella preziosa bevanda. I forestieri si scambiarono un'occhiata d'intesa, sorsero misteriosamente poi, colui che sembrava essere il maggiore della brigata, prese a dire: «Cortesi amici, il liquore che ora avete gustato è il vino. Esso si ricava dal frutto d'una pianta - la vite - che cresce nei nostri lontani paesi. Fu Noè, nostro padre, a svelare le segrete e mirabili virtù del succo della vite. Se voi voleste…» continuò l'uomo traendo da un fascio un mazzo di barbatelle, «ecco i robusti virgulti della vite. Li affideremo alla terra; ella li custodirà, li nutrirà, le piantine cresceranno, si vestiranno di pampini e, alla loro stagione, matureranno copiosi grappoli d'uva più dolce del dolcissimo miele». «La vostra terra», soggiunse l'uomo abbracciando con lo sguardo il piano e il colle, «diventerà fiorente e ricca: un giardino». Ascoltavano attenti i nani, annuendo lievemente col capo, poi il più anziano di loro disse:«Illustre straniero, non dubitiamo delle tue parole e siamo pronti a stringere con voi un patto. Ascolta: sarà vostra buona parte di questa terra, noi ci ritireremo più in alto, verso il monte. In cambio, che vi chiediamo? Oh, non molto, pochi otri di questo buon vino!». Una stretta di mano suggellò il patto. I nani con le loro greggi presero la via del monte, mentre i nuovi venuti si stabilivano lungo il pendio chiamato, oggi, Leitach (Costa). Subito gli uomini si misero al lavoro, lottarono a sangue con la macchia selvaggia e prepotente, sradicarono pruni, divelsero sterpi, liberarono il suolo dal pietrame. La vergine terra accolse i robusti virgulti della vite, le piante crebbero, fruttificarono meravigliosamente. Gli stranieri non avevano mentito: quella terra divenne, veramente un giardino. E il vino? Il vino era buono, tanto buono, che i solerti coltivatori pensarono di farne avere un otre anche al vecchio Noè. Era vero Leitacher, limpido, generoso! Lo gustò, beato, il gran Vegliardo, e subito decise di mettersi in viaggio per vedere la terra felice da cui proveniva quel vino. E così, un bel giorno, Noè raggiunse i figli. Voleva vedere con i suoi occhi quello che avevano saputo fare! E vide i fiorenti vigneti digradanti lungo il pendio ed, orgoglioso, lodò l'operosità e la tenacia dei figli. «Per voi» egli disse scorrendo lentamente con lo sguardo le pendici del colle «per voi l'umile e preziosa pianta ha trovato in questo paese ottima dimora. Ma altra terra attende di essere riscattata dal vostro lavoro: la vite, l'umile, la generosa vite vi compenserà d'ogni fatica». Ben presto far tesoro delle parole del padre quei figli laboriosi, ed instancabili si dettero a dissodare altra terra lungo la vallata. E volta e rivolta la zolla, e zappa e scava… Coll'andar degli anni i colli, che incoronano la conca ove ora sorge Bolzano, si ricoprono di vigneti ubertosi e la terra, redenta dal lavoro umano, celebrò la sua festa più bella. Ma via via che la vite conquistava le alture, il regno dei nani arretrava e si faceva sempre più piccolo ed angusto. Ma essi non se ne adontavano: gli stranieri erano sempre stati buoni e leali con loro e mai avevano fatto loro mancare il dolce liquore, che accende il fuoco nelle vene e dona al cuore gaiezza ed allegria. E i nani non chiedevano di più. Passarono molti e molti anni (nei libri antichi non è scritto quanti), genti armate invasero la valle, con le armi cacciarono dalla loro terra i pacifici viticoltori, abbatterono, bruciarono le viti. Fiamme alte, paurose divamparono di colle in colle per giorni e giorni. Quando il fuoco cessò, dei rigogliosi vigneti non rimaneva che cenere, una cenere bianca e fine che il vento sollevava e disperdeva lontano. E i conquistatori regnarono su quella devastazione. Che avvenne dei nani? Oh, i nani erano al sicuro e si guardavano bene dallo scendere al piano, chè l'aria che vi spirava non era poi tanto buona neppure per loro. Ai primi invasori altri ne seguirono; questi cacciarono quelli e ne occuparono le loro terre. Col tempo, i nuovi conquistatori abbandonarono i loro feroci costumi, le armi e la guerra ed appresero a dedicarsi al duro, ma pacifico lavoro nei campi. La fatica, il sudore fecondarono le zolle e la terra miracolosamente rifiorì. Fu una seconda primavera. Anche la vite, l'antica vite riapparve sui colli solatii col verde dei suoi pampini e la pompa dei suoi turgidi grappoli. «Gli uomini sono ridiventati saggi e buoni», andavano dicendo fra loro i nani, guardando giù verso la valle «si è ripreso a lavorare la terra e la terra fruttifica. Buon segno!». E, rassicurati, i nani scesero al piano per chiedere ospitalità ai nuovi abitanti. I nani furono bene accolti, fu ritrovato il patto dell'antica amicizia e gli uomini non ebbero a pentirsene: infatti, i generosi nanetti, in mille modi cercavano di rendersi utili ai loro amici, aiutandoli, sovvenendoli in ogni loro bisogno e necessità. E a sera, dopo il lavoro, uomini e nani amavano raccogliersi attorno ad un capace boccale di buon vino. Era frizzante «Leitacher?» Era biondo «Terlaner» dai chiari riflessi dell'oro fino? Il boccale passava di bocca in bocca: frizzi, gaie risate scoppiettavano qua e là fra un sorso e l'altro. Ma i più allegri erano i nani, che divertivano tutti con i loro scherzi e le loro buffe pantomime. Ma gli uomini crebbero di numero. Al piano e sul pendio, dove più ferace era la terra e mite il clima, sorsero borghi e villaggi. Gli abitanti si fecero duri, avidi di terra e di beni e, nella brama insaziabile di possedere, dimenticarono gli antichi patti. Offesi e delusi, i nani ripresero tristemente la via del ritorno verso il monte, ma non dimenticarono la bella terra. Presi dalla nostalgia, talvolta scendevano al piano, ma di rado e solo di notte. E c'è chi dice che ancor oggi, al tempo della vendemmia, i nani riappaiano nei vigneti. Nelle notti di luna scendono silenziosi dai monti e, cauti, s'aggirano tra i filari, sotto le viti, spigolando, piluccando, golosi, un acino qua, uno là. Di tanto in tanto sostano, fiutando l'aria che tutt'intorno odora di mosto e di vino nuovo. Si danno la voce l'un l'altro, allora, i nanetti e, audaci, s'avvicinano alle case, scivolano lesti nelle cantine. Eccoli là, a piccoli balzi si accostano alle botti, aprono impazienti lo zipolo e bevono. Bevono allegri i piccoli nani, il capo riverso, la barba scomposta e nel momento felice, dimenticano l'egoismo e l'ingratitudine degli uomini. S'accontentano di poco gli omini della montagna: un po’ di calore, un po’ d'allegria… poi in silenzio lasciano le cantine per riprendere, nella notte, la solitaria via dei monti
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Il «Lago di Santa Colomba»
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Il «Lago di Santa Colomba»
Val d'Adige e di Trento (BZ)
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L'origine dei laghi alpini ha sempre qualcosa di misterioso. Gli azzurri specchi d'acqua, formatisi nel corso dei millenni, attraverso una seria indefinibile di mutamenti geofisici, rappresentavano per le popolazioni primitive, ingenue e prive di cognizioni scientifiche, autentici prodigi, e davano luogo a narrazioni fantastiche dapprima di contenuto interamente pagano, quindi modificate e nobilitate da elementi della pristina tradizione cristiana. Spesso le leggende si identificano, o presentano fra loro sensibili analogie, con le sole variazioni determinate dalla diversità dei nomi e dalle singolari caratteristiche dei luoghi. Un notevole parallelismo si nota fra le leggende «lacustri» del Trentino e quelle dell'Alto Adige. Le prime sono contrassegnate da un carattere più religioso, che ha riscontro negli stessi nomi dei laghi: «Lago santo» di Cembra, «Lago santo» di Monte Terlago, «Lago santo» del Monte Zeledria e Lago di San Giuliano, ambedue nella Valle Rendena, Lago di Santa Massenza di Vezzano, Lago di Santa Maria di Tret, nella Val di Non, Lago di San Mauro sull'Altipiano di Pinè, Lago di San Pellegrino al passo omonimo, Lago di San Martino di Roncegno (ora scomparso), Lago di Sanspirito di Tuenno (scomparso), Lago di Santa Giustina in Val di Non (artificiale), e, infine, il «lago di Santa Colomba», sul Monte Calisio (Argentario), presso Trento. L'origine di questo lago - la cui leggenda presenta notevoli analogie con quella del Lago di Caldaro - viene qui richiamata, anche se appartiene al ciclo delle leggende trentine, per un motivo, per così dire, sentimentale. Il capostipite dei Merci trentini, lasciata circa sette secoli fa la natia Grezzana, in Val Pantena (Verona), si trasferì appunto a Trento, per andare a lavorare nelle miniere del Monte Argentario (che i minatori tedeschi chiamavano Kalisberg e gli italiani Calisio). La famiglia Merci ha infatti, ancor oggi, i suoi rami principali nel territorio di Vigo Meano e di Montevaccino, frazioni di Trento, sparse sulle pendici del Monte Calisio. Col trascorrere degli anni il cognome Merci subì due corruzioni, forse dovute ad imperfetta trascrizione nei registri anagrafici da parte di personale di altra lingua: Mersi e Merzi.
Sul versante nord-orientale del Monte Argentario, con un orizzonte fatto solo di verde e di cielo, giace, a 922 m.s.m, il tranquillo, romantico «Lago di Santa Colomba», chiamato anche «Lago Santo», da quando venne esorcizzato contro gli spettri e gli spiriti maligni che lo popolavano. Si narra che un giorno lontano, mentre un pastorello conduceva al pascolo il gregge, vide un globo luminoso che saliva sempre più in alto. La bolla di fuoco, che mandava un bagliore accecante, si fermò per un attimo nel cielo, poi precipitò d'improvviso, scomparendo nello stesso luogo donde prima si era levata. Avvicinatosi, pieno di stupore e di sgomento, il pastorello scorse un foro profondo, tondeggiante. Tornato a casa, il ragazzo si affrettò a raccontare quanto aveva visto ai suoi familiari che non gli badarono, pensando che si fosse trattato di una allucinazione. Ma il prodigio tornò a ripetersi. Allora il pastorello decise di scrutare più a fondo il mistero. Un giorno si fermò accanto al foro in cui si celava il globo luminoso, e attese. Ad un tratto, ecco apparire un omiciattolo, con un cappuccio scarlatto e una tonaca che gli giungeva sino ai piedi. Aveva una barba lunga e fluente … Allo spaventato pastorello spiegò che egli era uno dei «nani metalliferi», fedeli guardiani dei tesori nascosti nel cuore delle montagne. Il globo luminoso indica ai preferiti dai nani il punto in cui debbono scavare, per trovare il migliore e più abbondante metallo. Ma i fortunati minatori non debbono dimenticare l'amore per il prossimo e la carità: guai se dovessero obliarli; la loro ricchezza se ne andrebbe in fumo! Detto ciò, il nano sparì. Il pastorello avvertì la sua famiglia del fatto prodigioso, e subito tutti si misero a scavare come forsennati nel punto in cui era apparso il globo di fuoco. In breve, raggiunsero i filoni più abbondanti della miniera, da cui trassero grandi quantità di argento. Col passare del tempo, i poveri pastori divennero ricchissimi proprietari; giunsero minatori dai paesi vicini, i «canopi» e i «silbrari» (dal tedesco Bergknappen, minatori e Silber, argento) crebbero di numero, sorsero interi villaggi; al benessere succedette il dispendio; i costumi si rilassarono, la prepotenza, la cattiveria e l'egoismo prevalsero. Agli uomini semplici di un tempo - il pastorello e i suoi familiari erano ormai scomparsi -, subentrò la dissolutezza e l'avidità del denaro. Una sera giunse un vecchietto, povero in canna e malato. Chiese ospitalità, ma nessuno gliela concesse. Tremante dal freddo, il pellegrino si rifugiò, infine, nella misera capanna di un'umile vecchietta, che lo accolse di buon grado e gli dette un tozzo di pane e un giaciglio. Durante la notte scoppiò un pauroso temporale: pareva il giudizio universale. Poi si susseguirono violente scosse di terremoto sotto un cielo da apocalisse. Le case cominciarono a crollare, si udivano dappertutto grida strazianti di morte. Quasi tutti i minatori perirono, solo pochi scamparono alla morte con la fuga. Si aprirono le cateratte del cielo e venne giù il diluvio. Al mattino non c'era più traccia di vita umana: un vasto lago, il «Lago Santo» del Monte Argentario, aveva sommerso ogni cosa. Il nano del globo di fuoco aveva attuato la sua terribile minaccia. Nei mattini più sereni, sul fondo del lago una gran croce scintilla ai raggi riflessi del sole. E' la croce della chiesa del paese sommerso: tra le rovine la fantasia popolare scorge i canopi, che tengono in mano gli strumenti del lavoro e cercano disperatamente, ma invano, di fuggire
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Il Lago Santo modenese
Pievepelago (MO)
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Secoli e secoli or sono, un re malvagio valicò lunghe catene di monti per venire a conquistare una città. Già altre città, già altri paesi e villaggi egli aveva conquistato o distrutto, senza che la sua cattiveria fosse stata punita. Questa volta, però, si trattava di una città che non meritava d'essere asservita, perché i suoi abitanti l'avevano edificata con amore, l'avevano resa ricca, bella, fiorente. Allorché essi si accorsero del pericolo che stavano correndo, per notti e per giorni si misero a scavare un enorme vallone di dove, ben nascosti e protetti, al momento opportuno avrebbero potuto scacciare il nemico con una pioggia di frecce.
Venuto a conoscenza della cosa, il re chiamò il ministro e gli impose di trovare un rimedio alla situazione. Fu così che il ministro corse alla grotta del gigante e di laggiù, microscopico e tremante, gridò: - Ehi, tu! Che cosa chiedi in cambio, per darci una mano? - Quindici paia di buoi! -, rispose il gigante che dal suo antro seguiva e vedeva ogni cosa. - Trenta mucche … E intanto si stropicciava beato le mani, pensando che, con poca fatica, avrebbe avuto da mangiare e da bere per tutto l'inverno. Ed eccolo al lavoro. Distese le braccia, lunghe dodici miglia ciascuna, roteò le mani grandi come paesi, e, afferrata a caso una montagna per il cocuzzolo, se la pose sulla testa e s'incamminò per raggiungere il punto giusto di dove, scagliandola, avrebbe in un batter d'occhi seppellito città e cittadini. Ma che cosa avvenne, a un tratto? Avvenne questo: miliardi di formicuzze piccine e tenaci accorsero da ogni dove e cominciarono a scavare con tutte le loro energie la montagna che il gigante si portava sulla testa. Scava e scava, ben presto esse l'attraversarono da un capo all'altro. Così il gigante, prima di raggiungere la propria meta, si ritrovò con la testa infilata nella galleria scavata dalle formiche e con la montagna tutta intorno al collo come… un collarino. Ma che terribile collarino! Strozzato a quel modo, che poteva fare il povero gigante? Urlava, e le sue urla si perdevano in un gorgoglio. Cercava di scrollarsi di dosso la montagna, ma più scrollava e più essa gli si assestava intorno al collo… Sbuffava e smaniava, ma tutti i suoi movimenti non producevano che un lieve rotolio di sassi e di terriccio… Era la fine. A poco a poco, infatti, le forze gli mancarono ed egli morì. Intanto si era messo a piovere. Una pioggia abbondante, continua che scrosciava dilagando per la campagna e per il vallone, dividendo inesorabilmente la città dai suoi nemici. Piovve giorno e notte, per più giorni e più notti. Ormai la città era salva e i cittadini potevano guardare con gioioso sollievo quella pioggia benedetta che li aveva liberati dal pericolo. Così, quando tornò il sole, raggiunto il luogo in cui il gigante era crollato, tutti videro che la pioggia aveva riempito fino all'orlo anche il buco scavato dalle brave formicuzze nella montagna, formando un grazioso laghetto. A ricordo di quel gesto di bontà, lo chiamarono Lago Santo
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