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La Cavalcata di Aleramo
Monferrato
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Nel 960 l'imperatore Ottone aveva promesso ad Aleramo, genero ritrovato, tutta la terra che egli sarebbe stato capace di ottenere segnandone i confini in tre giorni e tre notti di cavalcata. Nasce il Monferrato, dall'entroterra savonese al Chivassese. Ottocento anni di indipendenza hanno lasciato traccia in chiese e palazzi e nella fierezza degli abitanti.
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Il voto incompiuto
Cornedo e Pietralba (BZ)
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Lasciate le ultime case di Cardano, la Val d'Ega, quasi all'improvviso, si restringe fra due ardite pareti di roccia porfirica. In fondo, incassato fra la strada e la pendice scoscesa del monte, scorre, scrosciando, il torrente Ega. Il paesaggio è crudo, aspro, vivo di una sua particolare e suggestiva bellezza. E quasi a guardia della forra, ardito sulla sommità del bastione roccioso, si erge Castel Cornedo. Massiccio, ferrigno, come germogliato e cresciuto sulla roccia stessa, appare il maniero a chi lo guardi dal fondovalle. Nei tempi antichi viveva in quel castello un cavaliere con la sua famiglia e la numerosa servitù. Tutt'intorno si estendevano le sue terre. Al piano, i campi e i vigneti rigogliosi, sulle alture i verdi pascoli e i boschi di conifere. Sparse lungo il fianco e al piede del monte stavano le casupole dei contadini che lavoravano quelle terre. Dal suo nido di falco il castellano dominava le strade e i sentieri che incrociavano al piano, là, dove le due valli - la Val d'Isarco e la Val d'Ega - confluiscono. Lassù nel suo maniero egli si sentiva sicuro; era abbastanza temuto per tenere a bada i nemici, abbastanza generoso per tenersi fedeli gli amici. Il Signore di Castel Cornedo, il cavaliere orgoglioso ed audace, si vantava di non conoscere la paura. Ma un giorno una terrificante notizia giunse al castello. A Bolzano era scoppiata la peste. La gente moriva; intere famiglie perivano vittime dell'orribile morbo. Le case si svuotavano paurosamente e il male dilagava ormai nei sobborghi e nel contado; la «morte nera» mieteva, inesorabile e crudele, larga messe di vite umane. Le campane non suonavano più e anche il cielo incombeva plumbeo sulla terra in gramaglie. La costernazione e il terrore regnavano in città. Anche nel castello entrò la Paura; s'infiltrò subdola fra le spesse e munitissime mura, senza far rumore. Il cavaliere brillante, l'uomo dalle audaci imprese, cominciò a non sentirsi più tanto sicuro; si vide solo, indifeso di fronte ad un nemico che non conosceva, che non portava né elmo, né corazza, ma che sapeva uccidere senza pietà. Che cosa potevano contro di lui le solide mura, le torri, le schiere di armati? Ironia! Nulla. Nell'imminenza del pericolo, il cavaliere divenne umile, e comprese che altrove egli doveva cercare aiuto e difesa. In preda ad un'angoscia disperata si rifugiò, solo, nella piccola cappella del castello e là proruppe in un grido d'invocazione: «Madonna Santa, aiutateci! Se tu risparmierai il castello dalla peste, farò un pellegrinaggio con tutta la mia gente fino a Pietralba!» Si videro giorni d'ansia, ma il subdolo male non riuscì a superare le mura. Sembrava che un difensore invisibile e potente avesse preso a proteggere gli abitanti. Come Dio volle, la pestilenza, un giorno, cominciò a diminuire e a poco a poco cessò del tutto. La vita riprese nella città e nei villaggi. I sopravvissuti, gli scampati, tornarono alle loro attività, alle opere consuete; gli artigiani cominciarono a riaprire le loro botteghe, i mercanti tornarono ad esporre alla luce le loro mercanzie, i contadini posero mano di nuovo alla vanga e alla zappa. Le strade, le piazze della città si fecero animate, vive; riflettevano nel movimento, nell'animazione l'incontenibile gioia di coloro che, dopo aver vissuto ore d'incubo, si ritrovavano a salutare il sole e la vita. Cessato il pericolo, il Signore di Cornedo dimenticò ben presto le ore angosciose che lo avevano fatto trepidare, dimenticò pure la promessa con cui aveva ottenuto dalla Madonna la salvezza per sé e per i suoi. Nel castello ripresero le feste, le partite di caccia, tornò l'allegria e la baldanza. Com'erano ormai sbiaditi nella memoria i giorni della sventura e del pericolo! A che ricordarli, se ora la vita sorrideva invitante, così ricca di promesse e di speranze? Ma la morte gelida ed esosa non dimenticò; furtivamente giunse al castello, silenziosa penetrò entro le mura. Il morbo funesto non risparmiò nessuno; mute le pietre assistevano a tanta tragedia. Il castello rimase disabitato; invaso da erbacce il gran cortile, vuote le scuderie, deserte le sale, un giorno echeggianti voci festose, di dolci melodie di menestrelli. Nelle torri vennero ad abitare i gufi e trovarono ospitalità intere famiglie di pipistrelli. La gente del luogo, passando da quelle parti, lanciava uno sguardo pieno di sgomento al sinistro maniero e girava al largo. Ma una notte… Una notte i morti del castello ritornarono. Quasi obbedendo ad un arcano ed irresistibile richiamo, si dettero convegno fra quelle mura desolate. Non mancava nessuno. Spettrali, avvolti in funerei mantelli, riempirono il grande cortile. Senza una voce, senza un cenno, ad un tratto si misero in fila e in processione uscirono. Davanti, alto, imponente, cavalcando lo scheletro di un cavallo, procedeva il Signore di Cornedo. La lugubre teoria degli scheletri si snodava lungo il sentiero della montagna e sembrava non aver mai fine. Al loro passaggio uscivano dai cespugli, di tra i massi, scheletri di cani, di gatti, perfino di topi e di ratti; anche questi si univano ai primi, seguendoli, nel loro viaggio notturno. Dov'erano diretti? Scesero nella valle, s'inerpicarono sul fianco del monte opposto, traversarono pascoli e boschi; andavano a Pietralba ad adempiere la promessa che non avevano mantenuto in vita. Ora, finalmente, erano in pace con se stessi e con Dio. Perdonati ed assolti, i morti tornarono alle loro tombe vegliate dal silenzio e dalla pietà degli uomini.
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La Storia di un Rubino
Lives (BZ)
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Alto, sullo spessore di roccia che si protende all'imbocco della Vallarsa, stava, una volta, un castello. Là abitarono per molto tempo i nobili «Signori di Liechtenstein» che, nei lontani secoli dell'età di mezzo, ebbero potere e signoria su quelle terre dove oggi si estende, con le campagne circostanti, l'abitato di Laives. Ma l'inaccessibile maniero ora non esiste più: diroccate, abbattute le torri e le mura, non rimane di tanta potenza che un cumulo grigio ed informe di pietre. Ma spesso anche le cose più umili, più dimenticate, hanno una voce e sanno parlare, a loro modo, al cuore, alla fantasia dell'uomo: e furono, forse, le antiche rovine, i ruderi sepolti del tempo, ad ispirare la fresca leggenda che vi voglio narrare. Visse, un tempo, nel castello il nobile Pietro di Liechtenstein. Dagli avi, venuti certamente dal nord, come testimonia il nome del casato, aveva ereditato le numerose e fertili terre che formavano uno dei più bei feudi della valle. Pietro era nato in quel castello appollaiato fra le rocce come un nido di falco, vi era cresciuto e lo amava come amava le sue terre, di cui conosceva ogni palmo, ogni angolo, ogni casupola, ogni sentiero. Qui egli amava vivere e, non appena la sua dura ed aspra vita di uomo d'armi glielo consentiva, tornava tra le vecchie mura, tra le cose care ed i volti noti. Dimessa la pesante armatura, via a cavallo per viottoli e sentieri o lungo le rive del Rio di Vallarsa a respirare, felice, la fresca aria natia. Pietro di Liechtenstein era generoso e buono, trattava bene la sua gente, entrava sovente nelle case dei suoi contadini per conoscere più da vicino la loro vita, per sovvenire e soccorrere i loro bisogni. Tutti sapevano che la via che conduceva al castello era sempre aperta ai poveri, ai diseredati, che, numerosi, ricorrevano a lui per avere aiuti e protezione. E la fama delle chiare e nobili virtù del Signore di Liechtenstein correva di castello in castello, di valle in valle. Com'era tepida l'aria in quel lontano giorno di primavera, quando Pietro, accompagnato dal fedele palafreniere, uscì dal castello per la solita cavalcata! Già gli alberi si rivestivano del verde tenero delle foglioline appena nate e il cielo sembrava dipinto a nuovo tant'era terso ed azzurro. Giunto in fondo al sentiero, Pietro si voltò: anche il vecchio e severo castello sembrava meno arcigno in quel quadro di pura bellezza. Dai cespugli, dalle siepi, venivano sommerssi cinguettii, frulli improvvisi, qualche uccellino azzardava un richiamo, un gorgheggio, subito ripreso da un altro, da un altro ancora, ed era una festa tutt'intorno. Pietro cavalcava felice. Anche il cavallo, un bel morello dall'occhio vivo ed intelligente, sembrava godere di quella giornata di primavera. Di tanto in tanto sollevava la testa, e con le froge dilatate e frementi respirava quella bell'aria che sapeva di erbetta fresca, appena nata, di fiorellini in boccio, di sole. A malapena s'adattava ad andare al passo, il focoso destriero, impaziente di lanciarsi al galoppo per la campagna, ma il cavaliere teneva salde le briglie e ne moderava prudentemente l'andatura. Arrivarono così, senza quasi accorgersene, nel luogo dove c'era un mulino. Il posto era solitario e deserto: non una casupola, non una capanna, ma il bosco fitto e scuro e la voce sonora del torrentello che scorreva vicino. Sostarono. D'un tratto di tra gli alberi videro uscire un nano, un omino alto una spanna, con una lunga barba bianca, vestito di rosso da capo a piedi. I due si guardarono sorpresi e, divertiti, stettero a vedere, o meglio a spiare le intenzioni e le mosse dell'omino. Questi, per nulla intimorito dalla presenza dei due uomini, si fece avanti, poi - rimasto un attimo soprappensiero - si avvicinò decisamente a colui che per la ricchezza delle vesti e la dignità del portamento gli sembrava essere il capo, il signore, e gli chiese l'elemosina. Sorpreso dall'audacia del nano, il palafreniere fece per scacciarlo, ma il signore con un cenno della mano gli ordinò di ritirarsi. Il cavaliere guardò con simpatia e benevolenza lo strano personaggio e levata di tasca una moneta d'oro, la lasciò scivolare nella mano rugosa che gli si protendeva davanti. Rise di gioia il nano accarezzandosi la bella barba candida e, riposta la preziosa moneta nella tasca sinistra del suo giubbottino, levò dalla destra un magnifico rubino che porse al signore con un profondo inchino. Il cavaliere non sapeva staccare gli occhi dalla gemma meravigliosa, che splendeva con mille preziosi scintillii nel palmo della sua mano. Nell'accomitolarsi, il nano raccomandò al signore di custodire gelosamente la gemma. «Essa - sussurrò con aria misteriosa - porterà fortuna a te ed ai tuoi discendenti»: e scomparve rapido nel bosco. Felice dell'augurio, Pietro avrebbe voluto sapere ancora molte cose dal nanetto; smontò da cavallo, s'inoltrò tra le piante, lo cercò a lungo, ma l'omino s'era ormai dileguato. Pietro tornò al castello al galoppo. Non vedeva la strada tanto il suo pensiero correva, volava lontano. Riudiva ancora negli orecchi la voce un po’ roca del nano: .. «conserva gelosamente la gemma, che porterà fortuna a te ed ai tuoi discendenti». Chiamò da Bolzano un celebre orefice e fece incastonare il rubino nello stemma di famiglia. Il rosso vivo della gemma impreziosita, ora, con lo scintillio dei suoi riflessi, l'oro dei ceselli e dava vivezza ai colori degli antichi simboli araldici. Ben a ragione, da allora il castellano potè chiamarsi «Signore di Liechtenstein». Con lo stemma anche il nome passò alla sua stirpe che ebbe, un tempo, splendore e fortuna. La profezia del nano della Vallarsa si era avverata.
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Il cavaliere e il drago
Val Badia e di Marebbe (BZ)
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Massiccio, ferrigno, tutto torrioni e dirupi, si erge, fra San Vigilio di Marebbe e Badia, il «Sasso della Croce». Lassù, rintanato fra le rocce, viveva, una volta, un terribile drago. Occhi di fuoco, aveva l'orribile mostro, zampe di leone, testa e corpo di serpente e sul dorso portava due grandissime ali che, aperte e spiegate, oscuravano il sole. Dal suo inaccessibile covo, il mostro spiava la preda - uomo od animale che fosse - e quando questa, ignara, gli giungeva a tiro, si levava repentino in volo e con gran strepito d'ali, sibili e fischi laceranti, le piombava addosso divorandola. Giorni di terrore si vivevano nella valle, un dì sì ridente e tranquilla. Molte famiglie già portavano il lutto e chi non lo portava guardava con angoscia, con sgomento all'incerto domani. Nessuno più poteva sentirsi sicuro della vita e la paura teneva tutti i prigionieri entro la stretta cerchia del villaggio. I mandriani non salivano più col gregge ai verdi pascoli dell'Armentana, né i boscaioli si azzardavano a recarsi a tagliar legna nei boschi, chè dall'alto il mostro dall'occhio di fuoco tutto vedeva, pronto a calare all'improvviso sulla vittima. No, nessuno osava più allontanarsi dal villaggio, nessuno. Ad ogni ora del giorno centinaia di occhi scrutavano ansiosi le grige rocce del «Sasso della Croce» e, quando la mole scura del drago s'affacciava alla bocca dell'antro e il primo sibilo fendeva l'aria, un grido d'allarme si levava dai casolari: era il segnale. Tutti allora si rinchiudevano in casa, si sprangavano porte e finestre; in un battibaleno il villaggio rimaneva deserto come se vi fosse passata, con una ventata, la morte. Dietro le porte, le finestre, la gente piangeva e pregava, mentre urli orrendi riempivano sinistramente l'aria. Saziata l'orribile fame (la vittima purtroppo non mancava mai) il mostro tornava alla sua dimora tra le rocce e tutto si rifaceva tranquillo. La gente riapriva le case, momentaneamente felice; gli uomini mandavano fuori il bestiame dalle stalle, le donne tornavano a sfaccendare per casa e i bimbi riprendevano i giochi interrotti, sotto il vigile occhio materno. Così ogni giorno, da settimane, da mesi, ormai … Ardimentosi cavalieri, uomini d'arme non avevano esitato ad affrontare il mostro con le armi, ma nulla avevano potuto i darli acuminati, nulla i colpi di lancia contro l'impenetrabile corazza che proteggeva il mostro in ogni parte del corpo. Tutti erano periti nell'impari lotta e le loro ossa erano rimaste laggiù, ai piedi della montagna. Ma così non poteva durare e, un giorno, gli abitanti dei villaggi più esposti alla minaccia del mostro, decisero di abbandonare le loro terre per cercare altrove asilo e salvezza. Nottetempo, in lunghe file nere, tristi e silenziosi, trascinandosi dietro gli animali, i montanari lasciarono i loro casolari e raggiunsero il fondovalle. Lassù non rimase anima viva. Quando il drago si vide mancare la preda, estese su altre contrade, su altri villaggi il suo triste dominio e la schiera delle vittime sembrava non aver più fine. Ma un giorno … Un giorno si sparse nella valle la notizia che Prack il prode dei prodi, avrebbe affrontato il drago in combattimento. La speranza rinacque nel cuore della gente sventurata, perché tutti sapevano chi era Prack e tutti conoscevano il suo coraggio, il suo ardimento. Prack era un giovane cavaliere di Marebbe, forte e generoso; nessuno meglio di lui sapeva maneggiare la spada e tirar d'arco e chi l'aveva visto battersi in Terra Santa per la Croce di Cristo, narrava di lui cose mirabili. Come ogni cavaliere degno di questo nome, egli aveva eletto a suo celeste patrono San Giorgio, il Santo Cavaliere, di cui, si diceva, avesse avuto in retaggio la sella, una sella prodigiosa che conferiva, a chi l'usava, lo straordinario potere di sgominare qualunque avversario per quanto potente ed agguerrito egli fosse. Udì il cavaliere le voci imploranti che disperatamente lo invocavano? Certo, si, e si accinse alla prova suprema. Bisognava vincere, abbattere il mostro, salvare la sua gente, la sua terra, a qualunque costo. Si armò d'arco e di frecce il cavaliere, e sellato il suo fido morello, partì a spron battuto alla volta di Badia. Correva, volava il cavaliere, stretto al suo cavallo per sentieri scoscesi, per boschi e valloni, via, via, come portato dal vento. Giunse, così, ai piedi del «Sasso della Croce» e lì sostò. L'immane parete rocciosa gli si ergeva contro, grigia e fredda con le sue crode, i suoi dirupi, come un'enorme muraglia elevata paurosamente verso il cielo. Prack alzò la visiera dell'elmo, puntò lo sguardo diritto verso la bocca dell'antro. Subito, il mostro, sentì nell'aria la presenza dell'uomo, del nemico ed enorme, spaventoso si spinse fuori con gli occhi balenanti, le fauci spalancate, battendo furiosamente la roccia con le enormi ali nere, che tutta l'aria intorno ne era sconvolta. Prack non tremò, incoccò fulmineo una freccia e tese l'arco; con un sibilo sottile, sferzante la freccia partì, andando a conficcarsi per intero nel cuore del mostro. Un urlo orrendo squarciò l'aria, si ripercosse sinistro per gole ed anfratti, moltiplicato, ingigantito dall'eco e il mostro si abbattè, contorcendosi, sul ghiaione. Lì giacque immobile, mentre un fiotto di sangue nero, infuocato, gli usciva dalla ferita, segnando una scia viscida e fumigante sulle pietre. Il mostro era morto. La gente della valle era libera, dunque. Una gioia grande, mai provata prima d'allora, riempiva, gonfiava il cuore dell'eroico cavaliere. Con l'aiuto di Dio e di San Giorgio ancora una volta aveva vinto. S'inginocchiò il giovane sulle pietre, al cospetto della montagna non più nemica, e mai preghiera più fervida, più riconoscente uscì dalle sue labbra. E Prack tornò al suo castello. Giù nella valle, intanto, la gente attendeva con ansia e trepidazione un messaggio, una notizia. Che era avvenuto al cavaliere? Era ancora vivo? O era rimasto lassù, stritolato fra gli artigli del mostro? Chi diceva una cosa, chi ne diceva un'altra e la disperazione e la speranza lottavano fra loro nel cuore di quei poveretti. Ma nessuna notizia, nessun segno venne dal monte ed i giorni ripresero a scorrere incerti e squallidi nella valle. Un giorno un giovane pastore osò rompere il cerchio desolato della pianura; radunò il suo gregge e salì verso i pascoli alti. La curiosità, l'audacia, lo spinsero a salire più su, sempre più su, finchè si trovò ai piedi del «Sasso della Croce». Là, sul ghiaione, il pastore vide una gran carcassa, un mucchio d'ossa, alto così, bianco, sotto il sole. Era quanto rimaneva del drago. Fugata la paura, la vita rifiorì nella valle. I profughi tornarono ai loro villaggi, ripresero sereni i lavori consueti. Il ricordo dei giorni tristi a poco a poco svanì, ma viva rimase tra gli abitanti della Val Badia la memoria dell'eroico cavaliere di Marebbe. Sul posto stesso, dove fu ucciso il drago, venne eretto più tardi un cippo, un'umile pietra rozzamente scolpita, che, fino a non molti anni fa, si dice, esistesse ancora.
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Spina, la città sommersa
Comacchio (FE)
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Nella zona a nord-ovest di Comacchio, e precisamente dove ancora in gran parte il terreno è paludoso, si estendeva più di 2000 anni fa Spina, una città floridissima. Sorgeva sul mare, le sue case poggiavano sulle palafitte e aveva un porto attivissimo e ogni giorno arrivavano dall'Oriente navi cariche di mercanzie. Era così bella e ricca che a quei tempi nessuno avrebbe potuto sospettare che un giorno sarebbe sparita dalla faccia della terra. Ma Spina giorno per giorno scompariva, interrata dal fango che il Po portava dalle montagne, finchè una terribile alluvione la sommerse completamente. Da allora i secoli passarono, e anche il nome di Spina cadde nel buio del tempo, finchè non fu più che un ricordo. I suoi fondatori furono forse i Pelasgi venuti dalla Grecia o forse i Galli o forse ancora gli Etruschi, calati dagli Appennini in cerca di terra da coltivare. Certo è che la città vide la luce circa sette od otto secoli a.C.
Nel 1922, durante un'opera di bonifica, vennero prosciugate le valli minori attorno a Comacchio. I lavori ebbero inizio nella Val Trebba, proprio all'estremo limite orientale della Provincia di Ferrara. Ed ecco affiorare i primi resti della città antica. Gli scavi, fatti poco dopo, portarono alla scoperta di oltre 1200 tombe, nelle quali gli operai trovarono anfore, vasi di ceramica, braccialetti, anelli, oggetti finemente lavorati che gli Etruschi, ed i popoli che li precedettero, usavano porre nei sepolcri dei loro cari. Sorse così il Museo di Spina ed il prezioso materiale venne ordinato nelle ariose sale del Palazzo di Lodovico il Moro, in Ferrara. I lavori vennero ripresi dopo la guerra e precisamente nel 1940 sotto la direzione del giovane archeologo professor Nereo Alfieri, il quale scoprì nella Valle Pega una nuova necropoli, più grande della prima. Nei giorni che seguirono, sorvolando la zona, il professor Alfieri riuscì ad individuare la pianta della città come l'avevano descritta gli storici grechi e romani.
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Il Gallo Nero del Chianti
Chianti (FI e SI)
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XIII secolo. Senesi e Fiorentini erano ormai stanchi di farsi battaglia così decisero che il reciproco confine sarebbe stato tracciato nel punto in cui due cavalieri delle opposte fazioni, partiti al canto del gallo, si sarebbero incontrati. I Fiorentini fecero digiunare il loro galletto e quindi nel giorno della “sfida” si mise a cantare ben prima per fame. Fu così che il cavaliere fiorentino partì molto in vantaggio sul rivale, conquistando gran parte del Chianti. In onore del pennuto affamato, ma portafortuna, fu scelto il Gallo Nero come simbolo del territorio chiantigiano.
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Panorama del castello Fieschi dalla Tavola Rotonda
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La Tavola Rotonda a Savignone
Savignone (GE)
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In una Savignone barocca, quando i fasti del castello si erano spenti, la nuova dimora dei Fieschi sulla piazza cominciava ad essere un luogo ricercato di divertimento per la nobiltà genovese.
A guardia del palazzo marchionale vigilavano, potenti, i Cavalieri della Notte agli ordini del Comandante Caiano Spinola e del suo fido Messer Uccio da Cassano. Era giunta, intanto, da Blois, la splendida Marchesa Ivonne, promessa, ma costretta, sposa di Gian De' Medici. Messer Uccio, affascinato, cadde ben presto innamorato di costei, ricambiato. Passionale fu l'amore, ma una serpe riferì la novella al futuro sposo: grande lo stupore di costui, che cercò subito la sfida. Fuori dal borgo, alle sei del dì, un acceso combattimento all'ultimo sangue sancì la vittoria dei Cavalieri della Notte e Uccio coronò il suo sogno d'amore.
A ricordo venne edificata la Tavola Rotonda, simbolo secolare del trionfo dell'amore.
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La Morte di Teodorico
Verona (VR) e Stromboli (ME)
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Ad Odoacre, re degli Eruli, che aveva scelto Ravenna come capitale del suo regno, successe Teodorico, il grande re degli Ostrogoti. Egli arricchì la città di nuovi monumenti e le diede una splendida sistemazzione architettonica. Inoltre favorì la cultura e molto si adoperò per ottenere la pacifica convivenza del suo popolo con i Latini. Nell'ultimo periodo della sua vita, però, divenne assai sospettoso; si sentiva ovunque minacciato ed ovunque vedeva congiure contro di lui. Attuò allora feroci persecuzioni di cui furono vittime, fra gli altri, i filosofi Boezio e Simaco, già consiglieri dello stesso re. Sulla morte di Teodorico, avvenuta improvvisamente all'età di 72 anni, nacquero parecchie leggende. Eccone due:
Teodorico, re degli Ostrogoti, ebbe una lunghissima e movimentata esistenza: battaglie, conquiste, vittorie, tradimenti e impiccagioni, viaggi, gare, feste, memorabili battute di caccia… Ma, dopo aver regnato in Ravenna per trentatre anni, la vecchiaia lo costrinse a ritirarsi nel suo cupo castello di Verona. E qui, passeggiando silenzioso e malinconico sugli spalti, acciaccato dall'età, debole e triste, non gli rimaneva purtroppo che di riandare col ricordo ai bei periodi della sua giovinezza, alle ardite imprese, agli atti di audacia e di scaltrezza… Non tutto era stato onesto ed esemplare, infatti, nella sua vita. Non tutto era bello da ricordare… Con insistenza gli ritornavano alla memoria le stragi, i popoli vinti, i propri uomini fatti trucidare ingiustamente… Questo, soprattutto lo tormentava. E dovunque rivedeva l'immagine di Severino Boezio, l'eroico martire. Dovunque gli appariva lo spettro di Simmaco, il più illustre dei suoi senatori… Il rimorso avvelenava gli ultimi giorni della sua vecchiaia, il ricordo delle sue vittime l'ossessionava notte e giorno.
Una volta, i servi gli portarono in tavola un grosso pesce. Dopo averlo fissato un po’, Teodorico l'allontanò improvvisamente da sé, preso da un enorme spavento. -Si muove!-, gridava, coprensosi il viso. - Ho visto che gira gli occhi e digrigna i denti! E tremando di paura, pallido e stravolto, spiegò che nel pesce aveva riconosciuto l'immagine di Simmaco, fatto decapitare da poco. Fu preso, trasportato in camera sua e messo a letto. Panni caldi e coltri gli furono messi addosso; accorse il medico di corte; ma nulla riuscì a riscaldare e a dar un po’ di pace al poveretto. La visione del pesce, che roteava gli occhi e digrignava i denti, non l'abbandonò più. Infine, sentendosi prossimo a morire, il vecchio re si affrettò ad eleggere suo successore il nipote Atalarico, di soli nove anni. Dopo tre giorni e tre notti di angosciosa agonia, Teodorico morì. Aveva settantadue anni.
Questa press'a poco la realtà. Ma sulla morte del barbaro re c'è anche una fosca leggenda, cantata da Giosuè Carducci in una bellissima poesia. Eccola: Teodorico, che viveva malinconico nel suo castello di Verona, guardava, un giorno, il dolce paesaggio sottostante. Invano il suo scudiero cercava di rallegrarlo, ricordandogli i bei tempi in cui, ancor giovane e gagliardo, cacciava pei boschi… Egli era assorto così nei suoi pensieri, quand'ecco il suono di un corno, nelle vicinanze, lo fece trasalire. Poi, fulmineo, un cervo dagli zoccoli di smalto e dalle corna d'oro, gli sfrecciò davanti e, attraversata la prateria, s'infilò nel bosco. Giovani guerrieri lo inseguirono di volata sui loro cavalli, l'arco pronto a colpire… Eccitato da quella visione, Teodorico balzò ai piedi, chiese il suo destriero ed i suoi cani. Ma i vecchi fedeli cani si ritraevano spauriti. Ormai da troppi anni il loro padrone non li conduceva più a caccia! Invece il cavallo nero, che d'improvviso era balzato accanto al re, fremette e scalpitò, con occhi di fuoco e con la schiuma alla bocca. Teodorico montò in arcione, partì, e invano lo scudiero gli gridò di fermarsi, di tornare. Il cavallo volava come il vento ed era impossibile arrestarlo. Va e va, il cavallo, per monti e per valli, per pianure e per colli, mentre Teodorico, che vorrebbe frenare e scendere è trattenuto in sella da una forza invincibile. Durante la folle corsa il vecchio re si raccomandava alla Vergine e a tutti i Santi. Ma chi poteva esaudire la preghiera di un uomo dal cuore duro e che aveva seminato tanto dolore? La Vergine, infatti, era intenta a illuminare la fronte pure e insanguinata dell'eroico Severino Boezio, il quale, nella sua aureola di bianchi capelli, apparve, finalmente, allo sguardo allucinato di Teodorico, mentre il cavallo, ormai oltre il confine calabro, si slanciava verso il cielo con un alto nitrito, inabissando il re nel cratere fumante dello Stromboli.
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La Scrofa Semilanuta dal Palazzo della Ragione
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La Scrofa Semilanuta
Milano (MI)
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Nel VI secolo avanti Cristo i Galli giungono nella pianura padana e guidati dal loro capo Belloveso sconfiggono gli Etruschi e si stanziano nella zona. Belloveso decide di fondare una città e consulta gli oracoli per conoscere il volere degli dei. Gli oracoli rispondono che la città avrebbe potuto sorgere nel luogo in cui fosse trovata una scrofa con il dorso per metà coperto di lana. La città avrebbe poi dovuto prendere il nome da quell’animale.
Partiti alla ricerca della scrofa, i Galli la trovarono in una radura circondata da un fitto bosco. Lì Belloveso tracciò il perimetro della città e le diede un nome celtico, che latinizzato dai Romani conquistatori, divenne Mediolanum (da medio-lanata) La scrofa semilanuta fu per lungo tempo il simbolo della città. In via Mercanti, è ancora visibile un antico bassorilievo con l'immagine della suddetta scrofa, collocato sul secondo arco del Palazzo della Ragione; fu ritrovato nel 1233, durante gli scavi per la costruzione del Palazzo.
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Ratto delle Sabine
Provincia di Rieti
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Lo Stato romano era già così forte da poter tener fronte in guerra a qualsiasi tra le popolazioni confinanti; ma per la mancanza di donne la sua grandezza sarebbe durata una sola generazione, poiché non c'era in patria speranza di prole, né avvenivano connubi coi vicini. Così Romolo organizzò ad arte solenni ludi in onore di Nettuno equestre, e li chiama Consuali. Ordina poi di annunziare lo spettacolo ai popoli vicini. Accorse molta gente, anche per la curiosità di vedere la nuova città, tra cui i Sabini. Mentre la festa si svolgeva fra canti e danze, ad un segnale convenuto, i giovani Romani rapirono le donne sabine, e armati di pugnali, misero in fuga gli uomini.
Questi ritornarono, poco tempo dopo, guidati da Tito Tazio, Re della tribù sabina dei Curiti, con l'intento di liberare le loro donne e di vendicarsi dell'affronto ricevuto. Una fanciulla, Tarpea, aprì loro le porte della città: ma pagò immediatamente il suo gesto con una morte atroce, infatti fu schiacciata dagli scudi dei Sabini; le generazioni future daranno poi il nome di lei alla rupe Tarpea, dalla quale diverrà consuetudine gettare i condannati a morte. Penetrati a Roma, i Sabini si lanciarono contro i guerrieri nemici; ma appena iniziò la battaglia, le donne intervennero per ottenere un armistizio: molte fanciulle infatti, si erano già affezionate agli sposi romani e non potevano tollerare la vista di quella sanguinosa battaglia nella quale erano coinvolti i loro padri e i loro mariti.
La vicenda ebbe così una pacifica conclusione: Romolo e Tito Tazio regnarono in comune sulla città; Sabini e Romani si fusero in un solo popolo. Dal nome della tribù di Tito Tazio, quella dei Curiti, derivò poi ai Romani l'appellativo di Quiriti.
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Le origini di Amalfi
Amalfi (SA)
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La leggenda narra che ai tempi dell'imperatore Costantino un gruppo di famiglie romane, volendo lasciare Ravenna e trasferirsi a Costantinopoli, furono sorprese da una violenta tempesta e costrette a rifugiarsi sulle coste della Dalmazia. Interpretato l'accaduto come cattivo auspicio, cambiarono rotta e si diressero nel Tirreno dove fondarono un villaggio vicino Palinuro, chiamato Melphe. Da qui continuarono ad esplorare i posti vicini e scoprirono un luogo ben protetto e ricco d'acqua, dove decisero di stabilire una colonia: il posto della gente venuta da Melphe, in latino "A Melphe", la futura Amalfi.
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