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I «Giganti» delle alpi altoatesine nella Leggenda
I «Giganti» delle alpi altoatesine nella Leggenda
Provincia di Bolzano

Le leggende dei giganti nacquero insieme con quelle delle gentili Salighe. E mentre queste contrassegnano il periodo aureo dell'ingenuità e dell'innocenza, le leggende dei giganti ricordano tempi duri, difficili, in cui dominavano la violenza, l'odio, la persecuzione dell'uomo, delle Salighe e degli Elfi.
I giganti erano creature mostruose, di statura enorme, simbolo della forza bruta. Presi dalla furia, scagliavano rocce grandi come case da una montagna all'altra, al di là della valle. Si trovano infatti un po’ ovunque dei massi chiamati per tradizione «Pietra (o Sasso) del Gigante» e talvolta essi recano ancora impresse le orme dei piedi e delle mani del gigante che li scaraventò.
La fantasia popolare ritiene i giganti ottusi di mente, di animo rude, maligni, brutali e vendicativi, propensi all'inganno e all'ira.
Il corpo del gigante era coperto di fitto pellame grigioverde, tanto da sembrare rivestito di «barba di bosco».
Dalla schiena, ruvida come una roccia, pendeva un mantello di pelle d'orso, tenuto chiuso da bottoni di ammoniti o da conchiglie, che, urtandosi tra loro producevano un suono gradito al gigante, quand'egli camminava, ma che era però anche un segnale d'allarme per i pastori e per i contadini, che si mettevano al sicuro. Era l'epoca in cui i giganti mangiavano gli uomini, preferibilmente i bambini, compresi i propri figli.
Il collo del gigante era corto e robustissimo come quello del toro; la sua testa era grossa, la barba setolosa. Gli occhi sporgenti rotavano come dischi incandescenti, quand'era arrabbiato. E arrabbiato il gigante lo era sempre.
La sua voce era cavernosa, profonda: sembrava, quando parlava, il brontolio del temporale o il fragore d'una cascata d'acqua. Il suo urlo faceva crollare le valanghe di neve e le pareti rocciose.
Si cibava di carne cruda di animali da lui uccisi, di radici, di erbe e di foglie. Al contadinello che gli chiese che cosa mangiava, il gigante della Valle Aurina rispose con voce cavernosa: pece di mucca e cavallette, intendendo dire burro e camosci.
Quando dormiva, russava talmente forte, che sembrava ci fosse il temporale; se inspirava, gli alberi si piegavano fino a toccar terra con la vetta; se espirava, li lanciava in aria come fruscelli.
Desiderando accendere il fuoco, il gigante sradicava due piante resinose, le fregava due volte tra loro e le piante si accendevano. Teneva in mano, a mò di bastone, un robusto abete con le radici, che sostituiva di frequente; e in tale posa il gigante viene ancor oggi rappresentato.
I giganti avevano raramente una famiglia. Vivevano in spelonche naturali o in antri fatti da loro stessi, spostando le rocce. Uscivano alla caccia di Salighe, le uccidevano e le facevano a pezzi. Taluni giganti invece, come il Canari e il Rotkropfl, le pigliavano e le tenevano prigioniere per goderne il bel canto.
Le donne dei giganti si chiamavano «Fangga»; nelle loro rare leggende, appaiono sempre da sole. Se il marito era un divoratore di bambini, le gigantesse nascondevano il figlio neonato presso contadini, che lo allevavano e lo avviavano al lavoro dei campi.
Sul Monte Muta, presso Castel Tirolo di Merano, viveva una famiglia di giganti. Un giorno la figlioletta discese quasi sino a valle e vide in un campo dei nani che lavoravano. Ne prese sei, quelli che più le piacevano, li mise nel grembiulino e tutta contenta li portò al padre…
Bimba, bimba mia, che fai?, disse il gigante, scuotendo il capo. Sono contadini di Lagundo, sono ometti utili, molto utili! Rimettili nel grembiulino e riportali giù, dove li hai presi, senza far loro male!
I giganti risalgono alla più remota civiltà pagana. Gli antichi tedeschi li chiamavano «risi». Oggi li chiamano «Riese». Estinto il ceppo antico dei giganti robustissimi e ignoranti, sorse la nuova erculea generazione, sempre più influenzata dalla civiltà. I bambini sottratti al padre antropofago ed affidati dalla madre ai contadini e da questi allevati ed educati secondo i tempi, vennero avviati ai grandi lavori di disboscamento e di bonifica dei monti, da trasformare in fertili colture. Fatti adulti, attesero alla costruzione dei castelli; cingevano corazza e spada, portavano sul capo una corona d'oro, esercitavano la magia.
La leggenda dei giganti divenne un po’ alla volta quella dei cavalieri.
Alcuni nomi leggendari: Jmir, capostipite di una progenie di giganti dei ghiacciai, Canari, Haimo, Haunold, Jochgrim, Jordan, Rax, Rotkröpfl, Schwarzegger, Serles, Starkwölfl, Tirsus, Titsch, Urhanns… e, nelle regioni retoromane, Orco (Ladinia e Trentino), Lorgg (Alta Val Venosta) e Norgg, da cui derivò Nörgelen, i nanetti del vino.

La diffusione del Cristianesimo ebbe una grande influenza sulla trasformazione della leggenda dei giganti primitivi in esseri più evoluti e nel mutamento dei cosiddetti «Wilde», essi pure giganti, in modesti abitatori di capanne, servizievoli verso i contadini, i quali durante la stagione rigida, davan loro di che sfamarsi: buoni con i buoni, vendicativi con i cattivi. Nel Tirolo il popolo non dice «Riese» (gigante), ma conserva ancor oggi il nome antico di «Wilde Mann» cioè «uomo selvaggio».
Le leggende altoatesine ricordano ed attribuiscono ai giganti la costruzione delle chiesette di Santa Caterina alla Forcella e di San Virgilio sul Giogo. Poiché i giganti possedevano un martello solo, se lo scambiavano ogni sera, lanciandoselo da una montagna all'altra, al di là della Val d'Adige, in quel di Merano.
Il gigante che costruì la chiesetta di Santa Caterina alla Forcella, edificò anche quella di San Giacomo di Lavena (San Genesio). La leggenda attribuisce al gigante della Val Senales la costruzione della chiesetta di San Procolo, a Naturno.
Si racconta pure che il gigante portò da Sesto le otto colonne di pietra che sostengono il Duomo di San Candido, in Val Pusteria. Si dice che avesse un appetito formidabile, se è vero che mangiava ogni giorno un vitello e uno staio di fagioli.
Tra Funes e Pontives, in località Flitz, i giganti avevano costruito un castello, che abbandonavano durante l'inverno, quando discendevano in valle, presso contadini generosi.
Nelle grotte dei monti di Tires furono scoperti resti di mobili, piedi di tavoli, di sedie e di letti, che la fantasia popolare attribuì ai giganti.

I giganti delle Valli Badia e Marebbe sono comunemente chiamati «Salvani» e le loro mogli «Ganne» o «Gane», cari e ancor vivi nella fantasia dei ladini e nella toponomasia locale. Abitavano in comunità nelle grotte del loro «Sasso della Croce», non parlavano mai e si esprimevano emettendo suoni gutturali.
I Salvani ricordano il culto pagano di Silvanus, importato dalle legioni e dai colonizzatori romani; le Ganne risalgono alla celtica vergine Ganna, ricordata dall'antico storico romano Dione Cassio (II-III secolo d.C.) come fanciulla divinizzata.
Con altri caratteri si avvicinano ai Salvani ed alle Ganne della Ladinia i «Pantegani e le Pantegane» di La Valle, in Badia, i «Vivani e le Vivene» della Val di Fassa, nonché i «Bregostani e le Bregostene», terribili nemici dei valligiani.
Figure affini sono pure le «Anguane» del Cadore, dal volto di donna e dai piedi caprini, e le «Agane» del Friuli, che con il loro canto melodioso, attirano gli uomini nelle grotte.

I ladini di tutte le Valli serbano il ricordo dei miti antichi.
Le figure create dalla loro ingenua fantasia, popolano ancora rocce, boschi e corsi d'acqua; sono inserite nei racconti e nelle canzoni, e vengono tuttora ricordate, assieme al leggendario «Gran Bracum», nei dipinti esistenti nell'Albergo Cappella di Colfosco e in alcune case avite signorili della Val Badia e di Marebbe


Le salighe
Le salighe
Altipiano di Verano (BZ)

Sull'Alpe di Verano, là dove il magro pascolo già dirada il suo verde e le scarse zolle erbose si ornano di qualche solitaria stella alpina, vivevano, una volta, le Salighe.
Erano, le Salighe, fanciulle misteriose che abitavano tra rocce e dirupi, entro grotte tappezzate di muschio e di borraccina.
La montagna era il loro regno.
Salighe, quale strano nome! I vecchi montanari del luogo le chiamavano anche Salighe Fräulein, Salighe Dirnen, ma chi fossero, donde venissero, nessuno lo seppe mai.
Amavano, le Salighe, la serena solitudine, i vasti silenzi dell'Alpe e solo di rado esse lasciavano le loro pietrose dimore per scendere fino all'abitato.
Erano gentili, affabili, le solitarie fate della montagna, e i montanari le trattavano con grande rispetto e le accoglievano volentieri nelle loro case. E dove esse entravano, entrava la benedizione, il benessere, giacchè le Salighe sapevano ricambiare assai generosamente il dono dell'ospitalità.
Così, una di esse, una volta, donò ad una povera donna un pane che non si consumava mai, ed un'altra regalò ad una sua protetta un gomitolo prodigioso, del quale non si vedeva mai la fine.
Erano davvero generose, le Salighe, ma guai ad indispettirle; si vendicavano, e come!
State a sentire. Viveva a Verano un contadino molto ricco, che aveva il più bel maso del paese, una stalla piena di mucche e campagna in quantità.
Le sue terre erano le più belle dell'altipiano, rispettate dal gelo, dalla grandine, dalla siccità, bagnate dalla pioggia a tempo giusto ed in buona misura: una terra benedetta.
Bisognava vedere al tempo del raccolto! Staia e staia di grano, d'orzo, di segale si accumulavano nel capace granaio, mentre il fienile a stento poteva contenere le carrate di fieno che giungevano, odorose di timo e di menta, dai prati vicini e lontani.
Ma questo non è tutto: sacchi e sacchi di bei talleri d'argento egli possedeva. Un vero tesoro! E il tesoro aumentava, cresceva, perché gli affari del fortunato contadino del maso Egger andavano, come si suol dire, a gonfie vele.
Spesso venivano al maso due Salighe. Erano giovani, bionde, leggiadre; con la loro grazia, con il loro bel fare, si erano conquistate ben presto la simpatia della numerosa famiglia del contadino. La padrona, poi, le considerava la benedizione della casa, tanto era il bene ch'esse vi avevano portato.
Alla sera, finiti i lavori, le due giovani Salighe si ritiravano in un canto in un canto della «Stube» ed aspettavano che la serva tornasse dalla stalla col latte appena munto. Di latte fresco erano ghiotte le fanciulle e, avide, appressavano le labbra al secchio, bevendo gelosamente il latte ancora tiepido e schiumoso.
Una sera, come il solito, finiti i lavori, le due Salighe entrarono nella «Stube». La serva stava scremando il latte e versava la panna nella zangola. Svelte, le due giovinette, portarono alla bocca il recipiente e … glu, glu, glu, presero a sorbire a lunghe sorsate la panna dolce e densa. Com'era buona! Sapeva di tutti gli aromi, di tutti i profumi della montagna. Ancora un sorso, un sorso solo; sembrava che non sapessero più staccarsi dalla zangola, le due ghiottoncelle.
D'un tratto sollevarono il capo: sulla soglia, scuro in viso, era apparso il contadino. Di colpo le due fanciulle lasciarono la zangora e strettero mute, con gli occhi fissi a terra, non osando sostenere lo sguardo irato del contadino.
«Tutta quella panna, tutta quella panna - dicevano quegli occhi minacciosi - è troppo! Me la pagherete».
D'improvviso l'uomo divenne torvo, trasse di tasca un coltello e fece l'atto di scagliarsi sulle inermi creature.
Un grido di terrore risuonò nella stanza; per buona sorte il colpo fallì e le due poverine, guadagnata la porta, fuggirono lontane, nella notte.
Passò del tempo; al maso Egger qualcosa non andava. Si lavorava come prima, forse più di prima, ma la terra non rendeva più come una volta. Un anno la siccità bruciava il foraggio, un anno la grandine distruggeva il raccolto o la moria decimava il bestiame; non passava stagione che non si dovesse lamentare qualche danno.
Gli affari andavano di male in peggio e il mucchio dei bei talleri d'argento scemava, scemava… Tutto andava male al maso Egger.
Un po’ alla volta il contadino perdette tutti i suoi beni e si ridusse povero, povero, a vivere d'elemosina.
Della primitiva ricchezza non gli rimase che il ricordo, uno struggente ed amaro ricordo che divenne, col tempo, unico compagno della sua triste e stentata esistenza.


La cintura stregata
La cintura stregata
Caldaro (BZ)

Poco sopra Caldaro, quasi a prolungamento di quell'abitato, verso la montagna, sorge Sant'Antonio, un gruppo di case adagiate sul dolce pendio ed esposte alla benefica carezza del sole.
Il 13 giugno si celebra, in quel paesello, la festa del Patrono: si impartisce la benedizione ai bambini, e moltissimi devoti, provenienti da tutti i paesi delle valli vicine, vi si recano in pellegrinaggio.
Appunto in quel giorno si verificò il fatto straordinario che sto per narrare.
In un maso poco fuori di Sant'Antonio, abitava, molti anni fa, una giovane donna, tanto bella quanto misteriosa, che per la sua ineguagliabile liberalità, era da tutti conosciuta ed amata.
Eppure, sotto tanta vistosa generosità, si celava l'animo più perfido che si possa immaginare. Molte sventure martoriavano e affliggevano gli abitanti della vallata: ma chi avrebbe potuto immaginare che quei mali erano il funesto prodotto delle arti malefiche di quella donna, in apparenza tanto magnanima e caritatevole?
Nel giorno della festa del Patrono, dunque, in un anno imprecisato di quell'epoca lontana, due contadinelle di San Michele Appiano si recarono, come tanti altri fedeli, in pellegrinaggio a Sant'Antonio.
Al ritorno, passarono davanti al maso della donna, che si mostrava in sembianze amichevoli, e furono invitate ad entrare e a far merenda con lei. Sulla tavola vennero portati i cibi più squisiti della zona, e le due semplici creature, dopo aver fatto onore alla ricca imbandigione, si alzarono con la mente avvolta da una piacevole ebbrezza e con l'animo disposto a tutte le cortesie. Di questa favorevole disposizione trasse subito profitto la falsa amica, per chiedere alle malcapitate ospiti qualcosa, che in una situazione normale sarebbe apparsa troppo strana.
Consegnò loro una cintura di colore sanguigno assai lunga e veramente meravigliosa, affermando che voleva farne dono agli abitanti di San Michele: era un oggetto dotato di straordinarie virtù contro tutti i malanni, sempre che fosse usato come la generosa donatrice avrebbe indicato.
Appena giunse al paese, le due ragazze avrebbero dovuto salire sul campanile, senza farsi notare da nessuno, per avvolgere la stupenda cintura intorno alla campagna, che suonava ogni volta che si avvicinava un temporale.
La donna insistette molto sul particolare della segretezza: e le due fanciulle, forse per effetto del generoso vino trangugiato, non trovarono straordinaria la cosa: anzi, ringraziarono l'amica, assicurandola che avrebbero fatto puntualmente quanto lei desiderava.
Strada facendo, oppresse dal caldo e dal languore prodotto dai fumi del vino, le ragazze sedettero sotto un grande melo, per riposarsi: ma inavvertitamente si addormentarono. Fu un sonno breve, ma sufficiente per fare svanire dalle loro menti la confusione e l'incertezza.
Raschiatesi le idee, le misteriose parole della donna tornarono loro in testa con chiarezza: «Appena giunte a San Michele, salite sul campanile, senza farvi notare da nessuno, e con le vostre mani cingete la cintura intorno alla campana. Vi raccomando, però, non fate parola ad anima viva».
Perché, dunque, tanto mistero?
Si guardarono mute, timorose: poi una di loro trasse la cintura dal sacco in cui era stata riposta e la distese per terra: dalla fascia rossastra si sprigionava un tale sfolgorio, che gli occhi ne erano abbagliati, come quando si tenta di fissare il disco solare.
«La nostra campana sarà stupenda, con questo straordinario ornamento!».
L'altra taceva pensierosa.
«Se provassimo ad avvolgerla intorno a questo melo, per vederne l'effetto?», soggiunse la prima, con voce fioca e piena di trepidazione. Detto fatto. Fu un effetto spaventoso, che riempì di sgomento le due ragazze, spingendole l'una verso l'altra, in un abbraccio disperato. Subito dopo avere avvolto la cintura intorno al tronco, questo, con uno schianto pauroso, si squarciò per tutta la sua lunghezza, come se la lama infuocata di un fulmine lo avesse colpito in pieno.
Della cintura non c'era più traccia. Il diabolico oggetto era scomparso con un lampo accecante.
Pallide per lo spavento, le due contadinelle si guardarono inorridite, pensando al tragico evento di cui avrebbero potuto essere la causa, sia pure involontaria.
Allora corsero disperatamente verso casa, decise a non dir nulla dell'accaduto, per paura della vendetta della strega. Ma il loro pallore, il tremito che ancora le faceva apparire in preda ad un gran turbamento, le parole mozze e incerte che pronunciava finirono col tradirle. E, sotto le domande incalzanti dei familiari, rivelarono infine ogni cosa.
La notizia del terribile prodigio passò rapida di bocca in bocca, e in breve ne fu piena tutta la vallata.
E allora i valligiani compresero chi era stata l'origine dei loro mali.
Subito alcuni di essi, più coraggiosi e decisi degli altri, armatisi di falci e di tridenti, corsero verso il maso della donna infernale, per fare vendetta. Ma una terribile sorpresa li attendeva: entrati, con la furia dell'uragano, nella casa della strega, decisi ad ucciderla, la trovarono ritta in mezzo alla stanza, con gli occhi fiammeggianti e in atto di sfida.
Dopo un momento di esitazione, fecero per lanciarsi su di lei: ma la strega, con un urlo agghiaggiante, si tramutò in un gigantesco pipistrello nero, orribile a vedersi, che emetteva dalla bocca fiotti di fuoco e di fumo. Prima che potessero riaversi dallo sgomento, i contadini videro l'immondo animale prendere il volo, e passando attraverso la finestra, allontanarsi nell'aria e scomparire al di là della Mendola, lasciandosi dietro una scia fumosa.
Nello stesso tempo dall'interno della casa si sprigionarono grandi vampate di fuoco, che costrinsero i contadini a precipitarsi all'aperto, da dove poterono assistere alla completa distruzione del maso maledetto, di cui non rimase che un mucchio di cenere rossastra.
In quello stesso luogo nacque, a quanto si dice, un grande rovo spinoso, dalle aride foglie striate di nero e di rosso, che continuò persistentemente a rinascere e a rigogliare, sebbene fosse stato più volte estirpato fin dalle radici più profonde


Il Folletto che culla il bambino
Il Folletto che culla il bambino
Caldaro (BZ)

A San Rocco, un angolino di terra poco lontano da Caldaro, c'era, una volta, un mulino.
Il mulino era vecchio, vecchio, i muri mostravano le nude pietre e il tetto di paglia, annerito dal sole e dalle intemperie, era tutto tappezzato di verdi chiazze di muschio. Ma pur così misera, la casa non era triste. La rallegrava tutta il gaio moto dell'enorme ruota e il gioco sempre nuovo dell'acqua che, cadendo fra le pale, si disperdeva in mille spruzzi vaporosi, in miriadi di goccioline d'argento.
Nel mulino abitava un giovane mugnaio. Egli amava la povera casa in cui era nato e vissuto e l'amava ancor più, da quando vi aveva condotto la giovane sposa e vi era nato il suo primo figlio, il biondo e roseo Simml.
Dal padre, mugnaio, aveva ereditato la casa, il mestiere e la buona volontà di lavorare.
La giornata era sempre troppo breve per lui, tutto preso dal lavoro, tra il familiare rumore delle macine e il candido spolverio della farina.
Spesso veniva al mulino uno strano visitatore. Era costui un omino, né vecchio né giovane, piuttosto brutto, con due occhi piccoli, neri, lucenti come capocchie di spillo. Aveva modi simpatici e garbati, era allegro e servizievole. Nessuno sapeva nulla di lui: né come si chiamasse, né donde venisse. Volentieri egli s'intratteneva al mulino, dove trovava sempre il modo di rendersi utile con qualche modesto servizio.
Al mugnaio non sembrò vero d'aver trovato tanta perla d'uomo, e, felice, lo accolse come amico in casa sua.
Pronto, cortese, l'omino sembrava voler dimostrare con la sua condotta la più viva riconoscenza verso colui che lo ospitava. Si prodigava in mille modi e, dove c'era da dare una mano, non mancava mai. Grande era la sua gioia, quando poteva avvicinarsi alla culla del piccolo Simml: lo vezzeggiava, lo cullava, cantandogli in sordina dolci ninnenanne.
Ma un brutto giorno, chissà perché, l'omino mutò umore e comportamento: divenne lunatico, bizzoso, intrattabile e cominciò a far dispetti e cattiverie d'ogni genere. Anche col bimbo non era più quello di prima: lo lasciava piangere e strillare e, quando lo cullava, lo faceva con tanta malgrazia, da rovesciare quasi la culla.
Non c'era più pace al mulino.
Una volta il mugnaio al colmo dell'esasperazione, rimproverò aspramente l'omino, tentando di metterlo alla porta. Non l'avesse mai fatto! Scattò, il perfido, come un serpentello: con gli occhi foschi di odio, furente d'ira gli si avventò contro lanciandogli in viso un'insultante risata.
La sghignazzata orrenda riempì, per un attimo, la casa.
Era una sfida? Una minaccia?
Il mugnaio comprese che così non poteva durare: la sua famiglia, la sua casa erano in pericolo. Che fare? Senza frapporre indugio, egli si recò dal parroco di Caldaro e al venerando sacerdote espose i suoi crucci e chiese aiuto.
Il vecchio parroco capì subito di che si trattava.
«Figlio mio - gli disse - a quanto pare, tu hai a che fare con uno di quegli spiriti malvagi, che cercano con ogni mezzo d'introdursi nelle case per molestare e recar danno alla gente. Ma non perderti d'animo - soggiunse l'accorto sacerdote - ora t'insegnerò il modo di ridurre all'impotenza lo spiritello.»
«Ascolta: appena tornato a casa, tu affronterai l'omino con queste parole: "Tutti gli spiriti buoni adorano Dio, il Signore. Qual è il tuo desiderio? Parla affinchè ti comprenda!".»
«Si calmo e deciso - concluse il parroco, congelando il giovane - e tutto andrà per il meglio!».
Rinfrancato, di buon umore, il mugnaio s'avvio verso San Rocco. Lungo il cammino, cento volte fece e rifece i suoi piani di battaglia: come, quando, avrebbe affrontato l'astuto folletto?
L'ansia di arrivare presto gli faceva divorare la strada. Il sentiero s'internava fra campi e vigneti; qua e là al piano e sul pendio qualche maso. Più lontano, accovacciato tra il verde, gli apparve presto il caro, vecchio mulino. Raggiunse la casa di corsa.
«Eccomi arrivato» - disse tra sé l'uomo ansante e trafelato. Aprì la porta della «Stube» e si arrestò sulla soglia.
Là, nel solito angolo, col viso aggrondato, lo sguardo cattivo, l'omino stava cullando il bambino. Le piccole mani adunche spingevano forte, sempre più forte la fragile culla. La zana oscillava, pencolava or di qua or di là; ancora una spinta, una spinta sola e si sarebbe rovesciata.
Tremò il mugnaio per la vita del suo piccino e, sconvolto dall'ira, si slanciò addosso al folletto, urlandogli sul viso le poche parole che, nell'agitazione del momento, ancora ricordava… «parla forte ch'io ti comprenda!».
L'omino, stretto nella morsa di quelle due mani che lo stritolavano, si dibatteva, urlava furiosamente. D'un tratto riuscì a liberarsi dalla stretta e ratto come il fulmine infilò la porta di casa. E il mugnaio dietro …
Ma buon per lui che s'arrestò sotto la gronda: guai se avesse oltrepassato quel termine! Il folletto l'avrebbe trascinato lontano, lontano e crudelmente dilaniato.
Ma là, sotto la protettrice ala del tetto, il mugnaio era al sicuro da ogni maleficio. Fuggì lontano il folletto, né più tornò a turbare la serena pace del mulino.


La Strega Fioraia
La Strega Fioraia
Magrè all'Adige (BZ)

E' Magrè un piccolo villaggio della Val d'Adige. Le rustiche case raccolte attorno alla vetusta chiesetta di San Floriano parlano eloquemente della vita umile ed operosa della popolazione che vi abita. Gente semplice questa, tutta dedita al lavoro dei campi, attaccata alle cose umili e buone della sua terra. La campagna attorno, benedetta da Dio e dalla fatica degli uomini è ubertosa, ricca di vigneti e frutteti.
Un tempo, sulla montagna che sovrasta il paese, era venuto ad abitare un conte con la giovane figlia di nome Erna.
La fanciulla era buona quanto bella. Sensibile, semplice, generosa, conosceva la vita dura e povera dei montanari fra i quali viveva. Entrava spesso nelle loro misere casupole per portare, dove più urgeva il bisogno, il dono della sua carità, della sua parola buona.
Quando passava per via, con quel suo comportamento riservato e gentile, il bel volto illuminato da un dolce sorriso, Erna era veramente l'immagine felice della grazia e della leggiadria.
La gente semplice che la conosceva esclamava: «E' buona e bella come una fata, la nostra contessina!» e la seguiva con uno sguardo di tenera ammirazione.
Erna viveva nella casa paterna, così ricca e piena di affetto. Le sue giornate trascorrevano serene fra il variare delle domestiche occupazioni. Ma le sue ore più belle erano quelle trascorse all'aperto.
Oh, la felicità di vagare tra i prati in fiore, di inerpicarsi per i viottoli del monte, di sostare all'ombra verde e riposante del bosco!
Di animo gentile, sensibile alla bellezza, Erna amava la natura e nella contemplazione del creato trovava una fonte inesauribile di godimento.
Serena e lieta come il cielo di primavera era per lei la vita, ricco di felici promesse l'avvenire. Ma un giorno…Un triste giorno l'orribile strega Reina venne ad abitare sulla montagna. E dove gli ultimi radi ciuffi d'erba cedono il passo alla nuda roccia, là, ella stabilì la sua tetra dimora. Abitava un'inaccessibile caverna; di lì scendeva per seminare fra gli uomini lutti e sventure.
Reina era brutta, malvagia e nel suo cuore di pietra non allignava che l'arida piana dell'odio. Perché era brutta odiava la bellezza, perché era fredda di cuore odiava la gioia che dà calore all'animo, fede e coraggio alla vita. Così era la strega Reina, condannata a vivere nella solitudine della montagna petrosa.
Un giorno dal suo antro spinse lo sguardo grifagno giù per il pendio del monte e lo posò sulla solitaria dimora del conte.
In quella casa regnava la pace, la serenità; fra poco vi sarebbero entrate l'angoscia e la morte. Con un crudele sogghigno stabilì il suo piano; avrebbe rapito Erna e l'avrebbe tenuta prigioniera sulla montagna.
Si ritirò nella sua fosca spelonca: là, tra neri e polverosi libri di magia, fra fiale ed alambricchi misteriosi, si preparò a tendere l'agguato all'inerme fanciulla. Si travestì da fioraia e, nascosta nel folto di un cespuglio, attese. Quando il conte uscì per andare a caccia, cautamente si appressò al palazzo.
Erna passeggiava nel giardino.
La strega le si avvicinò e, con fare mellifluo, le offrì dei fiori. Erna, felice ed ignara, li accettò. La strega, allora, si fece più audace ed invitò la fanciulla ad odorare una magnifica rosa. Non temendo l'inganno, ella aspirò il profumo avvelenato del fiore (poiché proprio in quella rosa la strega aveva nascosto il suo maleficio) ed immediatamente si sentì male.
Ratta, la strega la prese fra le braccia e la portò sulla montagna.
Al suo ritorno, il conte in preda ad un'angoscia mortale la cercò e la fece cercare per monti e per valli, ma ogni sua ricerca fu inutile. Invano Erna chiamava, invocava nel pianto il babbo lontano: chi la poteva udire? Attorno a lei arido e freddo si stendeva il regno del silenzio.
A volte la sconsolata fanciulla si affacciava all'imboccatura della caverna e cercava con gli occhi avidi di luce uno spiraglio di cielo azzurro. Oh, poter salire su una bianca nuvoletta e ritrovare la perduta felicità!
Senza speranza, nel pianto scorrevano i suoi giorni e la fiamma della vita in lei languiva, si spegneva lentamente. E di lacrime innocenti fu tutto irrorato il suolo della triste prigione. Col tempo quelle lacrime si raccolsero in un piccolo incavo davanti alla grotta e formarono un limpido stagno. Altre invece, come gocce di rugiada, caddero e si dispersero negli anfratti della roccia. Col gelo dell'inverno queste si trasformarono in tanti ghiaccioli di purissimo cristallo.
A primavera, col primo tepore del sole, essi si sciolgono in tante, tante goccioline iridescenti, che i montanari chiamano ancor oggi «le lacrime della contessina Erna»


La cavalcata delle streghe
La cavalcata delle streghe
Merano e Marlengo (BZ)

Peter era un uomo ben piantato, forte e vigoroso e, in quanto a coraggio, amici e conoscenti dicevano ne avesse da vendere. Egli faceva il «saltaro».
Era il «saltaro», fino a non molti anni fa, una delle figure più caratteristiche delle nostre campagne. Aveva mansioni di guardia campestre e, nella stagione delle frutta, doveva tener lontani, da vigneti e frutteti, i soliti ladri e ladruncoli.
Peter, il «saltaro», era zelante ed infaticabile; egli era assai noto in quel di Merano, dove, per le sue doti, tutti lo stimavano e l'apprezzavano.
Alto, imponente, egli indossava con naturale fierezza l'antico e pittoresco costume dei «saltari».
Portava, il nostro uomo, calzoni di pelle corti, al ginocchio, sostenuti da larghe bretelle colorate, calzettoni bianchi, scarpe basse, nere. Sulla giubba di ruvido panno facevano bella mostra ogni sorta di amuleti: piccole corna, denti di cinghiale, ed altri gingilli del genere. Tintinnanti medaglie e luccicanti monete erano, invece, appese a guisa di ciondoli all'alta cintura di cuoio. Completava l'acconciatura un enorme cappello carico, stracarico dei più impensati e strani ornamenti: penne di fagiano, di pavone, di gallo, fiori stagionali, a cui si aggiungevano due opulentissime code di volpe, penzolanti, l'una a sinistra, l'altra a destra delle vastissime tese.
Sotto siffatte spoglie, che gli davano tutta l'aria di un selvaggio guerriero, Peter si trovava perfettamente a suo agio. Quando egli appariva presso qualche vigneto o frutteto, impugnando la rilucente alabarda, anche i più audaci mariuoli si sentivano tremare le ginocchia e se la svignavano precipitosamente.
Quella sera il «saltaro» era di servizio nella zona su cui si estendono, in terrazze digradanti verso la valle, i vigneti di Marlengo. C'era da fare buona guardia, perché la vendemmia era prossima.
Già s'era fatto buio. Peter aveva imboccato il sentiero che porta alla riva dell'Adige ed in breve avrebbe raggiunto la sua abitazione. Camminava di buon passo e, via via che scendeva, percepiva sempre più distinta la familiare voce del fiume.
La notte era serena, ma senza luna e nel cielo splendevano già tante, tante stelle.
Peter era di buon umore, presto sarebbe giunto a casa e si sarebbe riposato dalle fatiche della giornata. D'un tratto il suo occhio fu attirato da uno strano spettacolo. Peter sostò un momento per osservare meglio. Veniva proprio dalla parte dell'Adige una luce intensamente luminosa, seguita da un lungo corteo di lumicini. Quei lumicini costeggiavano il fiume, sospesi nell'aria, in perfetto ordine sembravano diretti verso una meta precisa: fruscii misteriosi, sibili acuti solcavano l'aria.
Stette, il saltaro, in muta, curiosa contemplazione, mentre una ridda di pensieri gli metteva in subbuglio il cervello. Che poteva, infatti, significare quella processione luminosa, in quei luoghi solitari, a quell'ora?
Peter non si sentì più sicuro e, aguzzando gli occhi, cercò nei dintorni un riparo; proprio in quel momento, i misteriosi lumicini avevano infilato la salita.
Per fortuna, lì presso, in un vigneto c'era una capanna; con un balzo Peter la raggiunse, entrò, sprangò l'uscio e, accostato l'occhio ad una fessura, stette a vedere.
I lumicini salivano, salivano come portati da una forza misteriosa: un frastuono di mille voci, assordante, terribile, accompagnava la lunga teoria luminosa, che si allontanava nella notte.
Peter, per sua natura, era alieno da fantasticherie, né mai aveva avuto il tempo, né l'occasione di occuparsi di streghe o di altre diavolerie del genere, ma dopo quanto aveva visto con i propri occhi, fu quasi sul punto di convincersi dell'esistenza di quei diabolici esseri.
Istintivamente infilò la mano libera nella tasca della giubba, dove teneva, secondo la consuetudine dei «saltari», un ferro a forma di croce, su cui erano incise centinaia di crocette, la migliore difesa contro i malefizi dei nani spiritelli e streghe.
Che fossero davvero streghe quei lumicini che percorrevano l'etere, accompagnando il loro passaggio con tanto orribile strepito? Forse, proprio quella notte, le dannate megere avevano fatto una solenne cavalcata per portare, chissà dove, il loro malefico sortilegio.
Quando tornò la quiete, Peter uscì dal suo nascondiglio, né si volse a guardare dove fossero andati a finire i lumicini


Il ramoscello d'Oro
Il ramoscello d'Oro
Terlano - Settequerce (BZ)

Quando Hans, il carrettiere, partì da Merano, diretto a Bolzano, era già spuntata in cielo la prima timida stella della sera. La strada si srotolava bianca sotto le ruote del carro e Hans seduto a cassetta fischieggiava allegro. Era di buonumore il carrettiere; a Bolzano, come il solito lo attendeva una buona cena e una lieta e rumorosa brigata di amici.
Di tanto in tanto dava una voce a Fanj, la fida cavalla avelignese: «Su, svelta Fanj, dobbiamo far presto. Trotta, trotta, su, brava!». E Fanj volgeva la bella testa verso il padrone come per dirgli:«Ho capito, ho capito…». E riprendeva a trotterellare di lena pregustando già il premio del suo sforzo: una bella razione di biada e una lettiera fresca nella stalla.
A poco a poco si fa buio e nel cielo splende già un piccolo spicchio di luna. Di lontano giunge a tratti il lamentoso abbaiare di un cane. Uno dopo l'altro il carro lascia dietro di sé casolari e villaggi. «Eccoci a Settequercie! - esclama soddisfatto Hans -. Una piccola sosta, Fanj?».
E il carrettiere scende a terra, fa una carezza a Fanj, poi, senza fretta, accende la pipa. Si guarda attorno: buio, buio nero, profondo.
Ma che c'è là nel boschetto? Guarda. Un inatteso chiarore brilla dietro la fila dei pioppi. Si avvicina: un bel focherello arde, crepitando, fra gli alberi.
Toh, questa è bella! E chi l'avra acceso, se non si vede lì intorno nessuno? Trasecolato, incuriosito, il carrettiere si apposta dietro un albero ed attende. La sua attesa non è vana, che da dietro gli alberi, da sotto i cespugli, escono tanti minuscoli omini e donnine dall'aspetto di nani.
Reggono tutti sul capo o sulle spalle piccoli fasci di legna e si dirigono ballonzolando verso il fuoco. Vanno e vengono i nanetti, indaffarati e silenziosi, mentre due di essi stanno di guardia accanto al fuoco.
Dal suo nascondiglio, Hans li può osservare bene: con un ramoscello i due omini riattizzano le brace, accarezzano la fiamma. A mille a mille si sprigionano, brillano come stelline d'oro le lucenti faville. Gli omini le seguono con gli occhi allegri, finchè si dileguano nell'aria. Sembra un gioco, quello dei nani, un gioco misterioso, giacchè il ramoscello, pur venendo a contatto della fiamma, non brucia, non arde, non si consuma.
Hans guarda incantato: gli piacerebbe tanto avere uno di quei ramoscelli magici. E se provasse a chiederlo ai nani?
Hans si fa coraggio e, quatto quatto, si avvicina al fuoco. Sorpresi, i due omini, cessano di riattizzare la fiamma e guardano l'estraneo che sta loro innanzi.
«Che vuoi, straniero, da noi? - dice poi uno dei due omini - parla!»
Incoraggiato dalle semplici parole, Hans si appressa ai nani, si accoccola accanto al fuoco, ed esprime il suo desiderio.
Divertiti dalla strana e curiosa richiesta, i nani scoppiano in una sonora risata, poi il più piccino di essi dice: «Va bene, vogliamo accontentarti. Eccoti il ramoscello, è tuo! Bada però che non ti divenni troppo pesante…»
Hans è felice, ringrazia i cortesi nanetti e, senza badare troppo alle ultime parole da loro conferite, infila il ramoscello nel cordone del cappello e si allontana.
Sulla strada la fida Fanj scalpita impaziente: uno schiocco di frusta e via. Hans ha fretta, molta fretta d'arrivare a Bolzano. Questa volta, si, farà rimanere a bocca aperta gli amici col racconto della sua straordinaria avventura. E di tanto in tanto si tasta il cappellino, per sentire se il prezioso rametto è sempre là, infilato entro il cordone.
Ma che succede, diamine, ora? Il cappello, il suo vecchio cappello di velluto verde comincia a pesargli come non mai. Gli sembra di avere un macigno in testa, non un cappello. Per fortuna, ecco l'osteria «Al cavallino bianco», in Via bottai.
Gli amici sono tutti là, sotto il portico ad attenderlo.«Hans, Hans!», gridano, e chi gli prende di mano le redini, chi pone mano a scaricare, chi, premuroso, stacca la cavalla dal carro e la conduce in stalla. Hans scende dal carro e a passo lento, pesante, entra nell'osteria. Gli amici gli sono tutti intorno, poi, d'un tratto, uno grida: «Il cappello, il cappello!» E tutti guardano il cappello su cui brilla, infilato nel cordone, un ramoscello del più bell'oro zecchino. «Come luccica!» - «E' tutto d'oro?» - «Dove l'hai preso?». E' una valanga di voci, di domande. E il ramoscello passa di mano in mano, viene osservato, toccato, soppesato. E' proprio oro, tutto oro! Gli amici non cessano di domandare e tutti, tutti vogliono sapere. E Hans, felice, non si stanca di narrare la sua straordinaria, fortunata avventura.
All'indomani molti dei giovani amici di Hans si recarono nel bosco di Settequerce in cerca dei nani; attesero, attesero, ma dei nani neppure l'ombra.
Vi tornò anche Hans nei giorni seguenti: vi tornò di giorno, di notte con la segreta speranza di rinnovare l'incontro, ma i nani, certamente infastiditi dalla petulante curiosità degli uomini, avevano scelto altri luoghi per i loro pacifici convegni notturni


Il Mago di Tires
Il Mago di Tires
Tires (BZ)

Il paesino di Tires, una delle innumerevoli perle disseminate nelle valli altoatesine, sorge in una splendida posizione, ai piedi del Catinaccio, la superba mole dolomitica irta di punte aguzze protese verso l'alto, quasi a sfiorare il cielo: un maestroso groviglio di cime, quasi una invalicabile muraglia eretta da Dio, a difesa di quel tranquillo angolo di paradiso.
Tutt'intorno, estesissimi boschi di un verde scuro intenso, che appare ancora più cupo al confronto col luminoso rosseggiare di quella massiccia catena montagnosa, che raccogliendo gli ultimi bagliori del tramonto, sembra voglia ritardare di qualche attimo l'orrore della notte.
Il turista che ammira estatico quello stupendo scenario, immagina che gli abitanti di quell'umile paesello siano prediletti della Provvidenza, che ha concesso loro tanta profusione di sovrumana bellezza.
Come stampato sul chiarore della massa dolomitica, cupo, accigliato, quasi ferito nel suo orgoglio per vedersi di tanto superato dalle ispide punte delle torri del Vaiolet, spicca lassù il Monte Nigra con il suo rifugio. S'arrampica, serpeggiando su per il suo dosso, nascosto dal lussureggiante rigoglio degli abeti, la moderna strada detta «dei russi».
Ogni cosa, d'intorno, emana un vago sentore di leggenda.
Ai piedi di Tires, scorre impaziente il rio Briè, che col suo sordo, eterno brontolio, pare voglia narrare una sua strana leggenda, ripetuta dalla misteriosa eco celata in un angolo remoto della valle: una voce flebile, che va spengendosi come in un soffio, mescolandosi al fruscio degli abeti, carichi di anni e di ricordi.
Viveva un tempo lontano a Tires un malvagio stregone.
Un'alta cintura di un rosso scarlatto, tempestata di puntini bianchi simili a piccole stelle, che gli conferiva una forza equivalente a quella di dodici uomini, cingeva i suoi fianchi.
Era stato questo un dono di uno dei dodici spiriti, che nella notte dell'Epifania usavano cavalcare cavalli di fuoco, e il Catinaccio, per il riverbero, appariva esso stesso di fuoco.
Lo stregone di Tires non amava nessuno e gioiva dei mali altrui. Egli sapeva comandare a tutti gli elementi della natura e se ne serviva per sfogare la sua cattiveria contro gli abitanti, che avevano la mala ventura di dimorare nella stessa valle. Quando, infatti, i raccolti erano prossimi, egli, con la sua perfida arte, li distruggeva, rendendo vane le fatiche dei contadini. Di fronte al fantasma minaccioso della fame, che sempre più si approssimava, gli uomini di Tires decisero di sopprimere il crudele stregone. Ma ognuno di essi pensava con terrore a quella cintura e comprendeva che la prima cosa da fare era di strapparla al mago. Anche i dodici uomini più forti della valle non avrebbero potuto, infatti, comprendere con lui, finchè essa fosse stata in suo possesso. La disperazione diede loro il coraggio per l'ardua impresa: e si misero alla caccia dell'uomo funesto.
Lo scoprirono a Nova Levante e con decisione lo assalirono. Lo stregone, sicuro della propria forza e sempre fidato nel terrore che la sua presenza incuteva a tutti, non si aspettava quell'attacco improvviso: e la sorpresa lo predette.
Uno dei contadini lo ghermì vigorosamente per la lunga barba e prima che essi potesse riaversi, gli altri gli strapparono la cintura. Inutile fu allora ogni suo tentativo di difesa, ogni suo grido di minaccia; la sua forza se n'era andata con la cintura ed egli non era rimasto che un debole vecchio facilmente riducibile all'impotenza. Trascinato davanti a un tribunale, fu condannato al rogo.
Tutta la valle potè in seguito vivere tranquillamente: e da quel giorno il ruscello mormora ai passanti la sua leggenda: la raccoglie e la ripete l'eco recondita ma nessuno la intende.


Il calzolaio e i nani
Il calzolaio e i nani
Val Badia (BZ)

Tutta la Val Badia è uno scrigno scintillante di leggende: vi si parla di valorosi cavalieri che, fra gole rocciose ed impervi dirupi, combattono terribili duelli con mostri e draghi paurosi, vi si parla di streghe malvage che, dall'alto di inaccessibili rocce (Sass di Stria) tengono sotto il loro dominio strade e campagne. Altre leggende narrano di nani misteriosi dalla lunga barba bianca, che, nottetempo, amano entrare, non visti, nelle case degli uomini. Sono buoni e gentili questi nanetti; essi aiutano i bisognosi e, dove entrano, se rispettati, portano benessere ed agiatezza.
Così come capitò un giorno a Toni, un buon uomo di quei paesi.
In valle tutti conoscevano Toni, il calzolaio. Era un uomo laborioso, onesto, esperto del suo mestiere. Non erano tempi di abbondanza, quelli, ed egli doveva lavorare molto per avere sulla sua povera mensa, accanto al nero pane di segale, anche un po’ di magro companatico.
Una sera Toni s'era attardato più del solito nella sua bottega e, prima di uscire, aveva deposto sul deschetto tutto l'occorrente per fare un paio di scarpe: tomaie, cuoio, spago, chiodini, pece. Ma quale non fu la sua sorpresa quando, al mattino seguente, trovò le scarpe già fatte.
Si guardò attorno trasecolato, non sapendo credere ai propri occhi. Osservò le scarpe, le toccò, se le rigirò fra le mani; si, si, erano proprio scarpe vere, quelle; non era un sogno il suo!
Si sedette al deschetto per lavorare. Un turbine di pensieri gli sconvolgeva la mente, ma una domanda, soprattutto, lo assillava. Chi aveva fatto le scarpe?
Solo alla moglie, in gran segreto, confidò il fatto misterioso e con lei, donna accorta e coraggiosa, decise sul da farsi.
«La prossima notte - disse - mi nasconderò nella bottega e vorrò vedere coi miei occhi chi viene a fare le scarpe».
La sera, dopo cena, preparò sul deschetto il necessario per un nuovo paio di scarpe e stette ad attendere. Lentamente il buio invase ogni angolo della bottega; gli sembrava che in quel silenzio greve ed opaco, le ore non passassero mai. Si sentì prendere da un'oscura paura; strane immagini di maghi, di streghe e di folletti gli affollavano la mente, da farlo quasi vaneggiare. Non seppe resistere oltre, lasciò la bottega e tornò a casa. Alla moglie, che lo attendeva, disse di non sentirsi bene e la pregò di prendere, lei, il suo posto.
La donna non ci pensò due volte: andò. Si rannicchiò dietro la stufa e stette a vedere ciò che sarebbe successo.
Il vecchio orologio a pendolo segnava con il suo monotono battito il trascorrere delle ore: tan, tan, tan …
A mezzanotte la porta si aprì: due omini piccini e seminudi apparvero sulla soglia. Erano nani. La donna trattenne il respiro.
Avanzarono guardinghi, dondolando le piccole lanterne accese. Si sedettero al deschetto e cominciarono a lavorare di lena. In capo a due ore ogni nano aveva finito una scarpa.
Le misero insieme sul banco, ripresero le loro lanterne e, silenziosi com'erano venuti, se ne andarono.
Era ancora notte, quando la donna tornò a casa. Seduta accanto al camino, non si stancava di raccontare al marito la strana avventura.
«Dobbiamo essere grati ai buoni nani che ci hanno fatto del bene» concluse la buona donna. Chissà di dove venivano e quanta strada avevano percorso nella notte fredda e buia, così ignudi e piccolini!»
Comperarono subito due vestiti per i nani e, venuta la sera, li portarono in bottega e li misero bene in vista sul deschetto. I nani vennero, indossarono i vestiti, ma non tornarono più…
I nani non abbandonarono la Val Badia. Nelle chiare notti estive, quando l'incanto del plenilunio trasforma le guglie delle Dolomiti in bianchi e meravigliosi castelli, furono visti i nani giocare a nasconderello con altri nani, là sulle crode della Val de Mesdì e delle Conturines, sulle cenge della Varella e del Sassongher, sui verdi profumati pascoli dell'Armentara e della Putia e in riva ai carri, tranquilli, azzurrissimi laghetti di Fanes, di Lagazuoi e di Valparola.
Certamente di lassù, dalle loro ben guardate dimore, i nani scesero altre volte fra gli uomini della valle, entrarono ancora nelle loro case basse e scure e ancora, e sempre, si dice, lasciarono un dono a coloro che seppero accoglierli senza tradirli con la loro molesta curiosità


Tille, L'Ondina Prigioniera
Tille, L'Ondina Prigioniera
Val Sarentino (BZ)

Sull'alpe, tra Sarentino e Meltina, ai piedi del «Colle del Pozzo», c'èra una volta un lago. Da molti anni esso è scomparso e nessuno più rammenta il suo nome, se un nome l'ebbe mai il piccolo lago sperduto fra i solitari pascoli montani.
Nel mezzo del lago emergevano pochi scogli di roccia nuda e scabra, che si riflettevano con magico gioco nello specchio cupo ed immobile delle sue acque. Sotto le rocce, là dove l'acqua si faceva scura, scura, quasi nera, s'apriva un profondo abisso.
Si diceva che nel lago abitassero fate: le Ondine. Esse vivevano in un palazzo tutto di lucido cristallo che sorgeva sul fondo del lago. Ma era tanto buio laggiù e mai un raggio di sole giungeva a rischiarare la notte, che avvolgeva nelle sue tenebre l'incantata dimora lacustre. E le Ondine amavano l'azzurro, il verde dei prati, i fiori…
Al tramonto, quando il cielo è tutto di porpora e d'oro, le fanciulle del lago salivano alla superficie a salutare il sole, prima ch'esso scendesse dietro i monti. A nuoto esse raggiungevano la riva e cantando si disperavano per i prati a cogliere fiori, ad intrecciare giochi e danze fino al calare della sera.
E l'aria tutt'intorno risuonava delle loro voci, dei loro trilli giocondi, simili al suono di piccole campanelle d'argento.
Ma com'erano timide le Ondine! Bastava un rumore, una voce inconsueta a farle trasalire: lo scalpitio d'un cavallo, un passo d'uomo le intimoriva a tal punto che, subito, smarrite e tremanti, correvano a tuffarsi nel lago.
Un giorno d'estate - il sole accendeva infuocati barbagli d'oro fra le cime degli abeti - il contadino del maso Wieser si trovò a passare nelle vicinanze del lago. Camminava lentamente chè il cammino ne aveva fatto molto quel giorno ed era stanco; tornava dalla malga e contava di essere a casa prima di notte.
D'un tratto gli giunse all'orecchio l'eco d'un canto lontano; sostò in ascolto. Era un dialogo canoro di voci festose, limpide, fresche. Chi cantava così, a quell'ora? Il giovane proseguì il suo cammino, soffermandosi di tanto in tanto ad ascoltare. Ed ecco, di tra gli alberi, gli apparve il lago.
Sulla riva le Ondine coglievano fiori stornellando ignare, felici. Nascosto dietro un albero, il contadino stette, tutt'occhi, ad osservare. Le Ondine! - disse trattenendo il respiro -. Ecco le misteriose abitatrici del lago, di cui aveva udito spesso parlare, a veglia, nelle lunghe serate invernali.
Dicevano i vecchi che molte e molte cose sapevano:«In alto, ai piedi del "Colle del Pozzo", c'è un lago. Nel lago abitano le Ondine. Le leggiadre fanciulle amano l'azzurro del cielo, il verde dei prati, i fiori, ma sono timide e temono la gente. Felice colui che riesce a condurre nella sua casa un'Ondina! Benedizione, prosperità, benessere fioriranno sotto quel tetto».
Così aveva udito narrare il giovane: una ridda di pensieri gli metteva la testa in subbuglio. Camminava, ma non vedeva la strada, tanto era immerso nel suo fantasticare; fortuna, prosperità, benessere… Quanti, quanti castelli in aria!
Giunse al maso che annottava e non fece parola con alcuno dell'accaduto.
Il mattino seguente andò difilato a Valas da un suo amico, che aveva fama di intendersi di magia.
«Ascolta, - disse il contadino del maso Wieser con fare circospetto - hai mai udito parlare delle Ondine? Sai chi sono?»
«Certamente che lo so, - rispose l'uomo, guardando con una certa sorpresa l'amico - e so anche …».
«Già, tante cose tu sai - interruppe impaziente il contadino - su, dunque, apri uno di codesti libroni e dimmi che debbo fare per condurre a casa mia una di quelle graziose fanciulle».
«Ehm, ehm, l'impresa non è facile - osservò l'amico, sfogliando un grosso librone di cartapecora - non è facile, ma, ascolta…».
«Aggioga al carro una coppia di buoni neri che non abbiano neppure un peluzzo bianco e raggiungi le vicinanze del lago prima che suoni l'Ave Maria della sera. Quando sarai arrivato, lascia il servo a guardia del carro e tu nasconditi in un cespuglio vicino alla riva e attendi. Non dovrai attendere a lungo, chè le Ondine, alla solita ora, usciranno a danzare sul prato; tu allora, esci ratto, getta il tuo mantello addosso alla più vicina, carica la prigioniera sul carro, frusta i buoi e via…La fanciulla non potrà più fuggire e se in casa la tratterete bene …»
Ma il contadino non aveva più bisogno di sapere altro, salutò frettolosamente l'amico e fece ritorno al maso. Pochi giorni dopo, al mercato di Bolzano comperò i due buoi. Erano due bestie poderose, nere dalla punta del naso alla punta della coda; il più bel paio di buoi del mercato. A casa si dette gran da fare, preparò il carro, aggiogò i buoi neri e, col servo, s'avviò verso il «Colle del Pozzo».Quando vi giunsero, il sole stava ancora alto sopra gli abeti; l'uomo si nascose entro un cespuglio vicino al lago e si mise pazientemente in attesa.
D'un tratto le acque s'incresparono ed apparvero alla superficie alcune leggiadrissime Ondine. Le fanciulle raggiunsero rapide la riva, toccarono terra e con passo leggero cominciarono a danzare, gaie, sul prato.
All'improvviso il contadino uscì dal suo nascondiglio e, adocchiata un'Ondina, le gettò addosso il suo ampio mantello, avvolgendovela tutta da capo a piedi.
Un grido disperato risuonò nell'aria tranquilla della sera. Sorprese, atterrite, le Ondine corsero a tuffarsi nel lago, mentre la poverina, ormai prigioniera, si dibatteva piangendo, supplicando, invano, di essere lasciata libera. Il contadino diede un fischio, accorse il servo. La fanciulla fu caricata sul carro; un secco schiocco di frusta e via… Correvano, volavano, le due bestie nere, sbuffando, sprizzando scintille dai pesanti zoccoli ferrati.
Così l'ondina venne a vivere nella piccola, grigia casa di contadini, posta a mezza costa fra il monte e la valle.
Tutti le volevano bene, grandi e piccini, perché era buona, dolce, gentile. E veramente la piccola fata del lago portò la benedizione sotto quel tetto; pace e serenità regnavano in famiglia, la terra dava raccolti sicuri, abbondanti, il bestiame rendeva… Il contadino del maso Wieser poteva chiamarsi fortunato; l'Ondina pensava a tutto, l'Ondina provvedeva a tutto.
Leggera, sorridente, ella s'aggirava tutto il giorno per la casa; dava una mano qua, un tocco là, dove c'era bisogno, in silenzio, quasi che il parlare le costasse fatica. E mai rivelò ad alcuno il suo nome. Finchè un giorno …
Un giorno il contadino si trovò a passare, cavalcando, presso il lago. D'un tratto una voce proveniente dalle acque gli gridò: «Forestiero dal cavallo bianco, ascolta! Dì a Tille che l'uomo è morto!». Tille, Tille si chiamava forse così l'Ondina prigioniera? Ma che significa quel misterioso messaggio?
Turbato e perplesso, l'uomo giunse a casa e riferì alla fanciulla le parole udite. La poverina impallidì, si fece triste e, mostrando di voler essere lasciata sola, si ritirò nella sua cameretta.
Il mattino seguente ella entrò nella «Stube» che già tutti stavano seduti attorno alla tavola per la colazione. Si vedeva che aveva pianto. Si accostò alla tavola e tenendo per la mano un gomitolo di filo disse: «Devo andarmene, ma vi lascio questo gomitolo in dono; nessuno chieda mai della sua fine», e così dicendo si allontanò e scomparve. La vecchia contadina del maso Wieser, la nonna, prese con mano tremante il dono e lo pose gelosamente nel cassettone.
Da quel giorno non si seppe più nulla della dolce fatina del lago, ma tutti avvertivano la sua presenza invisibile nella casa e poi c'era il gomitolo … e il gomitolo chiuso là, dentro il cassetto, fra mazzolini di profumata lavanda, portava fortuna a quella gente. Tutto andava a gonfie vele, ma un giorno…
Un giorno capitò, per caso, al maso la sarta del paese, donna curiosa e ciarliera oltre ogni limite. Dopo aver parlato di questo e di quello, la donna uscì a dire: «Ma, insomma, me lo fate vedere codesto gomitolo portentoso?». La vecchia contadina nicchiava, ma il figlio, ridendo sotto i baffi disse: «Ma si, mostrateglielo, dunque: non è che un gomitolo!».
Quando la sarta l'ebbe in mano lo osservò, lo rigirò da tutte le parti poi, come parlando tra sé, mormorò: «Ma questo gomitolo non finirà mai…». Non ebbe il tempo di aggiungere altro che un'improvvista folata di vento spalancò la finestra, irrompendo furiosa nella «Stube».
Smarrita, tremante, l'incauta si rannicchiò tutta in un angolo, aprì la mano… Gettò un grido: il gomitolo era scomparso! Nella mano non c'era che un pugnello di cenere.


L'amore della Fata di Monte Giovo
L'amore della Fata di Monte Giovo
Valli Passiria, Giovo, Racines e Ridanna (BZ)

Una visione divinamente orrida crea intorno a noi una magica atmosfera di stupore e di smarrimento, incanta la nostra anima con una sua dolce cupa malinconia. L'occhio si perde, si smarrisce fra serie interminabili di catene irte di punte aguzze, che sembrano dissolversi nella luce di un cielo intensamente azzurro.
In mezzo a questi incanti della natura viveva, molti secoli fa, il bel cavaliere di Castel Giovo, dedito alla caccia più che all'amore, mentre la bella fatina dai grandi occhi azzurri, luminosi come stelle, che abitava in una grotta, poco lungi dal Passo chiamato ora il Monte Giovo, sospirando si struggeva nel suo tenace amore.
Il cavaliere, armato d'arco e di faretra, passava oltre, superbo, sul suo magnifico baio dalla bardatura scintillante d'oro, senza degnarla di uno sguardo. Ella era fata, ma era innanzitutto donna: e la sua vanità, il suo orgoglio, feriti da tanta indifferenza, vollero la vendetta. Mutatasi quindi in umile pastorella, si diede a battere le vie abitualmente percorse dal superbo signore.
Esisteva, nei pressi di Casateia, la capanna di un fornaciaio, il quale un tempo era stato scudiero al castello. Ivi, sovente, il signore sostava durante le sue battute di caccia, per prendere respiro.
A lungo e invano vagò la fatina fra Valtina e Calice, Racines e Mareta, Val di Giovo e Casateia, finchè un giorno giunse alla capanna e, spinta dal suo acutissimo istinto femminile, vi si fermò ed attese.
Poco dopo, ecco comparire il cavaliere, che veduta la pastorella, le chiese un sorso d'acqua. Ella premurosamente gliene porse una tazza, entrò la quale aveva lasciato cadere, non vista, una sua magica perlina.
Bevve d'un fiato il cavaliere, e subito si sentì tutto pervaso da una strana dolcezza e da un violento amore per la modesta pastorella. Questa allora, riprendendo le sue vere sembianze, apparve in tutta la sua raggiante bellezza agli occhi del signore, che, fuor di sé dalla gioia, la sollevò tra le braccia, montò rapido in sella e spronò forte verso il suo castello.
Ma la sua felicità fu di brevissima durata.
Giunti nei pressi di Calice, la fatina, avvicinatosi alle labbra un suo minuscolo corno d'oro, emise un acuto squillo e si dileguò sotto gli occhi stupiti del cavaliere, che, preso da una forte disperazione, cavalcò furibondo per tre giorni e tre notti senza sosta, finchè il cavallo sfinito precipitò a terra esanime. Continuò a piedi, vagò come un pazzo nei boschi di Racines, di Ridanna e Val di Giovo, vendette gli abiti e, divenuto povero, finì col mendicare di maso in maso.
Una notte, sperduto nel folto del bosco di Racines, fu colto da un violento uragano, che lo costrinse a cercare riparo sotto un grande e frondoso abete. Sfinito dalla stanchezza, si appoggiò al grosso tronco e, vinto dal bruciante ricordo del perduto amore, unì il suo canto al fragore della tempesta, per dare, con esso, libero sfogo alla pienezza del suo cuore dolorante. Gli rispose, lontano, un corno cupo e malinconico, voce della sua felicità infranta, eco del suo dolore disperato. Si scosse, tentò di correre verso l'origine di quel suono, ma le forze gli mancarono, la mente gli si offuscò e cadde a terra privo di sensi.
Rinvenne alla tepida carezza del sole, che filtrava attraverso i fitti rami degli alberi. Si trovò sdraiato su un soffice letto di foglie. Ai suoi piedi giacevano ricche vesti trapunte d'oro, vicino ad un abete nitriva gaiamente il suo del baio, e al suo fianco la fatina risplendente in tutta la sua bellezza, gli sorrideva benignamente.
Allora il giovane, dimentico della stanchezza e delle traversie, balzò in piedi, si stropicciò ripetutamente gli occhi, per convincersi che non sognava: poi corse verso l'amata e l'abbracciò con indescrivibile dolcezza. Infine, indossate le ricche vesti, montò sul cavallo insieme con la sua deliziosa fatina e si diresse di corsa verso il castello.
Nell'incanto della sua ormai non più sperata felicità, il nuovo regno fantastico della natura che riappariva ai suoi occhi, lo affascinava con le nubi dorate, col dolce, sommesso mormorio delle fronde e dei ruscelli. Gli pareva di udire una musica affascinante, in un nuovo mondo di suoni e di colori meravigliosi, con un loro linguaggio misterioso e ineffabile. Egli si sentiva perfettamente, profondamente fuso con quella natura di sogno.
Sono passati molti secoli. La mano dell'uomo e l'azione del tempo possono aver mutato, distrutto certi aspetti di quei luoghi, ma il suono misterioso del corno, che tuttora si nasconde nel bosco di Racines, nessuna forza ha potuto strapparlo all'eco, che, nelle notti tempestose, di tanto in tanto lo ripete, flebilmente, come nostalgico singhiozzo.


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